La scuola ridotta a corso di addestramento

 dal blog di Giorgio Israel, 27.4.2011

Valutare la scuola per migliorarla: è un tema all’ordine del giorno da anni e su cui si sono infranti parecchi tentativi, anche per le resistenze corporative di molti docenti a farsi giudicare. Ma, al di là di queste resistenze, esiste il problema delle modalità della valutazione, che non sono affatto scontate. La modalità più semplice, largamente seguita all’estero, è quella dei test. Non a caso, siamo quotidianamente sottoposti a piogge di statistiche che certificano carenze e successi delle scuole dei vari paesi in questa o in quella materia. Una visione critica imporrebbe molta prudenza nel valutare (è il caso di dirlo) il significato e il valore di queste statistiche, soprattutto in relazione al contenuto dei test “somministrati” (è l’orrido termine ormai in uso). È facile mostrare come certi “successi”, come quello della scuola finlandese, derivino dall’adeguamento della didattica all’obbiettivo di avere successo nei test, e celino gravissime carenze nella qualità degli apprendimenti scolastici. Ma siccome siamo in mano agli “esperti” scolastici – tecnocrati competenti nelle tecniche di valutazione ma assolutamente ignoranti dei contenuti – la considerazione della natura dei test è considerata come una perdita di tempo: basta che la loro preparazione sia affidata a “specialisti” per disinteressarsi del loro contenuto. Come costoro siano stati scelti, quali competenze abbiano, perché non vi sia un controllo incrociato del loro operato, pare cosa totalmente irrilevante.

Comunque, pur difendendo la necessità del massimo rigore e della massima trasparenza sui contenuti, non intendo affatto negare l’utilità dei test al fine di stabilire se esista un livello minimo di capacità in ortografia, grammatica, nozioni di base della matematica, ecc. Insisto sull’aggettivo “minimo”, perché se si pretende che con i test si possa valutare anche la capacità di uno studente di comporre un testo stilisticamente valido o di impostare correttamente un problema in termini matematici e risolverlo, allora siamo alla pura e semplice cialtroneria. Tuttavia, ripeto, si può concordare sull’utilità di base di test accuratamente pensati e verificati. Il vero problema è però quello accennato prima: e cioè che la didattica non si pieghi al fine del successo nei test. Questo significherebbe aprire la strada al famigerato “teaching to the test” – l’insegnamento completamente funzionale ai test – che ha fatto danni disastrosi laddove è stato applicato. Quando ho paventato questo rischio sono stato accusato di catastrofismo. Era un timore riduttivo perché, dai segnali che arrivano, purtroppo ci siamo. In vista dei prossimi test Invalsi in molte classi si è smesso di insegnare per dedicarsi all’addestramento a superare i test. In altre classi gli insegnanti resistono e si rifiutano giustamente di smettere di insegnare Leopardi per dedicarsi ai test: quando i test verranno si faranno, e basta. (Si noti che anche questo dimostra l’utilità delle classi, non dispiaccia ai buontemponi che vorrebbero la scuola “open space”). Il guaio è che è difficile resistere: le scuole sono soggette a un diluvio di libercoli ed eserciziari volti ad addestrare al superamento dei test Invalsi, spesso di contenuto indecente (ma qui non vi è spazio per documentarlo). È un tipico fenomeno di affarismo all’italiana. Si dice anche che alcuni autori siano tra coloro che preparano i test: non voglio crederci neppure per un attimo. Ma, di certo, sarebbe necessaria una parola chiara e forte da parte del Ministero: in nessun caso l’insegnamento può essere trasformato in un addestramento a superare i test. Altrimenti, alla scuola italiana potremo dare l’addio finale.