La "test-mania" anche in medicina

 dal blog di Giorgio Israel, 6.8.2011

«Che tipo di dottore può essere uno che non sa ascoltare gli ammalati e non gli sa parlare? Il tempo in cui i medici si tenevano la diagnosi per sé (“lei faccia l’ammalato, il medico lo faccio io”) è passato». Così scrive Giuseppe Remuzzi sul Corriere della Sera. Alla domanda non si può che rispondere: un pessimo medico. Ma che il tempo in cui i medici non sapevano dialogare col malato sia passato è forse un’illusione. Non è certo un’idea nuova che la medicina è più di una scienza oggettiva del corpo umano, è un’arte che, avvalendosi di conoscenze scientifiche, si confronta con le persone: «è innanzitutto perché gli uomini si sentono malati che esiste una medicina», osservava Georges Canguilhem. Nel mio libro Per una medicina umanistica, ho tentato di spiegare – dal punto di vista della storia della scienza – le origini dello smarrimento di questa dimensione della medicina, che va di pari passo con il declino della clinica. Esse risiedono nella nascita della medicina “scientifica”, che valuta lo stato del corpo umano mediante parametri quantitativi. È un enorme progresso che porta con sé il rischio che il medico osservi il dossier dei risultati analitici senza alzare lo sguardo sul malato. Nelle presentazioni del libro ho constatato come negli ambienti medici si stia sviluppando una crescente preoccupazione per questo andazzo che considera il malato come un “corpo” e non come una persona. Ma il fatto è che questa nuova sensibilità contrasta una tendenza che rafforza la spersonalizzazione della medicina, con l’intervento di metodi analitici sempre più sofisticati, microscopici e spesso anche a distanza. All’anamnesi che non mira soltanto a ricostruire il passato del paziente ma a stabilire un dialogo con lui, a “conoscerlo” e “conoscersi” come persone, si sostituisce lo screening genetico e alla “visita” il complesso dei test analitici. Quindi la situazione è molto difficile.

Sempre Remuzzi informa che negli Stati Uniti hanno deciso di bloccare quegli studenti di medicina che fanno bene gli esami ma non sanno comunicare con i pazienti. Benissimo. Ci si immagina allora che i giovani vengano educati di più alla pratica clinica, a tutte quelle procedure caratteristiche della medicina intesa come “arte”, poiché l’idea di una medicina umanistica non è certamente una scoperta, casomai è la scoperta dell’ombrello. Niente di tutto questo. L’idea è di selezionare i futuri buoni medici mediante test attitudinali… Il che è quanto curare la malattia con la malattia stessa. Quel che non va è che i medici non sanno più avere un rapporto umano, che valutano il malato in modo meccanico, con test analitici e basta, che la clinica deperisce. E allora che facciamo? Rafforziamo le capacità cliniche con un addestramento sul campo sotto la guida di medici esperti e capaci che trasmettano l’arte del rapporto medico-paziente? Figurarsi. Selezioniamo i capaci con dei test, magari a cura di specialisti di questi test, psicologi o sociologi. È evidente che ormai l’idea che tutto debba essere reso scientifico, oggettivo è talmente pervasiva che si arriva persino al supremo paradosso che per ripristinare una capacità di rapporto interpersonale lo si debba fare con metodi impersonali e (che si pretende) scientifici. Sarebbe da ridere se non fosse da piangere. Sappiamo anche che il mito dell’oggettività, della misurazione di tutto, della gestione manageriale “scientifica” è un’ossessione tipica della cultura americana. Tutto il rispetto dovuto a tale cultura non è un buon motivo per prendere a esempio e modello un’idea tanto balzana.