La scuola tagliata

Mariangela Bastico da Europa, 9.9.2'010

I dati dell’Ocse sull’istruzione nei trenta paesi più industrializzati del mondo smentiscono i ministri Gelmini e Tremonti. La scuola italiana è la più povera – seguita solo da quella della Slovacchia – tra quelle dei paesi analizzati: l’Italia investe in istruzione solo il 4,5% del Pil, contro una media Ocse del 5,7%; la spesa per studente è più bassa della media Ocse.

La scuola italiana, quindi, non è “sprecona” e neppure spende il 97% delle risorse per il personale, come ripete continuamente, anche nella recente conferenza stampa, il ministro Gelmini.

L’Ocse, come già la Corte dei conti, indica la quota di spesa dello stato per il personale della scuola intorno all’80%: 80% e non 97%, il ministro lo dovrebbe sapere.
Alla spesa dello stato – oltre 43 miliardi – si deve aggiungere quella delle regioni e degli enti locali (quasi 9 miliardi di euro), che è prevalentemente destinata ad investimenti nell’edilizia e nelle attrezzature, ai progetti di innovazione; quindi, agli stipendi è dedicato poco più del 60%.

D’altro canto gli stipendi non sono risorse buttate via, in quanto è chiara ad ogni famiglia la fondamentale rilevanza di buoni educatori e di adeguato personale tecnico per l’istruzione, l’educazione e la sicurezza dei propri figli. E va aggiunto che se oggi la scuola – tanto “tagliata” – è ancora in grado di svolgere adeguatamente il proprio ruolo, lo deve ai tanti insegnanti, bidelli, dirigenti, che, pur impoveriti, denigrati e senza sicurezza del lavoro, continuano a credere nella loro professione e cercano di dare tutto il possibile agli studenti.

Il governo italiano investe troppo poco nell’istruzione e questa povertà di risorse incide negativamente sulla qualità dell’offerta scolastica, sui risultati di apprendimento, sul numero dei diplomati e dei laureati.

Il primato degli abbandoni scolastici (22 %) e del numero dei ragazzi “invisibili” (2 milioni) che non sono né a scuola, né al lavoro, il tasso di disoccupazione giovanile (26,8%) tra i più alti di Europa sono drammi nazionali. Il ministro Gelmini, invece, si compiace delle bocciature, di una falsa severità nella scuola, dei tagli; cancella le sperimentazioni, negando sostegno alle innovazioni didattiche necessarie affinché la scuola accompagni tutti i ragazzi – tutti e non uno di meno – ai livelli essenziali dei saperi e delle competenze per essere cittadini consapevoli e per il proprio lavoro.

L’Ocse segnala che il monte-ore della scuola italiana è maggiore rispetto agli altri paesi, che, dobbiamo saperlo, hanno servizi sociali, ricreativi e di sostegno agli studenti che collaborano con la scuola, pur non essendo inseriti nei bilanci dell’istruzione. In Italia, per realizzare la “scuola del non uno di meno” occorrono tempi di insegnamento adeguati, al fine di introdurre una didattica che valorizzi il protagonismo dei ragazzi, le esperienze concrete, i percorsi scuola-extra scuola e che si avvalga di laboratori tecnici, scientifici e informatici. In una parola, che sostituisca una parte degli insegnamenti teorici e frontali con le esperienze e le sperimentazioni. Contro queste Gelmini e Tremonti si sono particolarmente accaniti. Basti pensare che il riordino della scuola superiore si è caratterizzato per il dimezzamento delle ore di laboratori e per un colpo di spugna su tutte le innovazioni.

In Italia le scuole dei piccoli comuni montani, delle zone isolate o dei quartieri ad alto degrado sociale delle grandi metropoli costituiscono spesso l’unico presidio pubblico, l’unica opportunità di crescita e di incontro per tanti ragazzi e per le loro famiglie, diventando a volte il luogo dell’identità stessa della comunità. E proprio queste scuole dovrebbero essere sempre aperte, come abbiamo sperimentato nel passato e auspichiamo per il futuro.