La carica dei 200mila accattoni di Simonetta Salacone* il manifesto, 8.9.2010 È sufficiente ripetere più volte una affermazione in forma apodittica, affinché non si ingeneri alcun dubbio o incertezza o voglia di approfondire da parte di chi riceve il messaggio. È sufficiente utilizzare un fraseggiare sintatticamente semplice perché ciò che l'affermazione stessa contiene divenga senso comune acquisito dalla gran parte dei fruitori dei «media». È così che, a forza di ripetere che «la scuola non è un ufficio di collocamento», che «lo Stato non può permettersi di assumere 200mila docenti precari», che l'Italia ha «il rapporto più basso docenti/alunni di Europa», tale convinzione è diventata cattivo senso comune anche fra persone di buon senso. D'altra parte, «l'ha detto pure Mentana sul nuovo notiziario della 7!». Come è possibile che una enorme quantità di docenti ai quali per decenni lo Stato ha affidato l'onere di portare avanti una scuola povera di strumenti, non riformata in tutti i segmenti, funzionante in locali spesso inadeguati divenga di punto in bianco un insieme di incolti straccioni che pretendono di lavorare solo perché hanno svolto qualche mese o qualche anno di supplenza! Come è possibile che personale utilizzato spesso per decenni, con assunzione a settembre-ottobre e licenziamento a giugno, che ha sopportato questa situazione (che a nessun privato sarebbe stata possibile!) in attesa di una legittima definitiva assunzione? È possibile proprio perché quel numero di docenti sarebbe servito a ricoprire i posti in organico e a realizzare il turn over legato ai pensionamenti se le «grandi» ed «epocali» riforme del ministro Gelmini non si fossero abbattute come una disastrosa frana sulla scuola della Repubblica, diminuendo indiscriminatamente le ore di lezione, aumentando il numero degli alunni per classe, accorpando plessi e classi, tagliando quasi del tutto le ore dedicate ai laboratori, rifiutando di ampliare il tempo pieno nonostante la richiesta in aumento per insufficienti investimenti in servizi da parte di enti locali sordi o troppo poveri. Le proiezioni parlano chiaro: l'attuale corpo docente italiano è entrato nei ruoli negli anni del boom delle nascite e della scolarizzazione di massa (gli anni 70) e si avvia al pensionamento che si completerà entro questo primo quindicennio del nuovo secolo. È vero: non c'è più il boom delle nascite, ma l'attuale situazione demografica vede il picco discendente delle nascite meno alto che negli ultimi decenni, grazie anche ai figli dei migranti. Si aggiungano poi l'innalzamento dell'obbligo scolastico per un biennio, la presenza di alunni disabili nella scuola di tutti, l'incremento delle iscrizioni di alunni figli di migranti, la generalizzazione della scuola dell'infanzia, l'introduzione anche in Italia, come in tutta l'Europa, dei percorsi di educazione e istruzione per gli adulti e si potrà constatare come il numero di docenti necessario per mantenere la qualità della attuale offerta di istruzione si aggiri proprio fra le 150.000 e le 200.000 unità di personale. Ma, si dice, il rapporto numerico docenti/alunni in Italia è troppo alto. Come non considerare i circa 80.000 docenti di sostegno per quella condizione di assoluta qualità che solo l'Italia può vantare, che vede l'inserimento dei disabili nella scuola di tutti? E, viceversa, come non considerare quella anomalia tutta italiana per cui lo Stato assume e paga circa 30.000 docenti di religione cattolica scelti e indicati dai vescovi? Ma, si dice, la scuola italiana funziona molto male e dà risultati insoddisfacenti. Non sarà, forse, proprio perché da anni, con governi di destra e di sinistra, vive uno stato di abbandono e di continui tagli alle risorse? Non sarà perché il personale precario è sempre cresciuto e non si riesce a garantire continuità alle relazioni educative? Non sarà perché le nostra scuole sono ancora a malapena dotate dei banchi e delle sedie occorrenti? Non sarà perché si continuano a delegittimare socialmente la cultura, la ricerca, la funzione pedagogica della scuola e, di conseguenza, ad additare i docenti come «frustrati» e «fannulloni»? Riconnettiamo le esigenze che alunni e genitori esprimono quotidianamente al disegno di una scuola su cui il paese venga chiamato a riflettere e che interpreti adeguandolo ai tempi, il disegno che della scuola fa l'art. 34 della Costituzione. Allora sarà facile far capire a tutti che la lotta dei precari si salda con quella di chi vuole una scuola di qualità per i figli, ed è la stessa lotta degli operai di Pomigliano o di Melfi: è la lotta per i diritti essenziali al lavoro, alla istruzione, alla salute, all'ambiente. È la lotta che ci deve vedere presenti, perché non prevalga il modello di società ferocemente classista che il neo-liberismo ci presenta come ineluttabile destino.
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