LE RIFORME DIFFICILI

L'Università entra nel merito

di Alessandro Schiesaro Il Sole 24 Ore, 11.5.2010

L'Italia ha una lunga consuetudine con le riforme dell'università, molte abbandonate, altre compiute, ma tutte invariabilmente accolte, a torto o a ragione, con la critica che quel che si proponevano di relizzare era sempre o troppo o troppo poco. Sempre troppe sono le norme in un ambito così peculiare per chi è convinto che le università debbano in sostanza autoregolamentarsi, lasciando all'autorità pubblica solo il compito di stabilire obiettivi di sistema, compatibilità economiche e strumenti di valutazione. Sempre troppo poche per chi ritiene che, naturalmente, «ci vorrebbe ben altro» per imporre un vero salto di qualità. Sarebbe un peccato se questo rituale si ripetesse anche con il disegno di legge che dovrebbe essere licenziato questa settimana dalla commissione Cultura del Senato.

Il disegno propone nel complesso un deciso passo avanti in un settore la cui crisi d'identità, anche se talora esagerata a scopo polemico, è comunque sotto gli occhi di tutti. Pensare che la crisi nasca con il 3+2, o in esso si racchiuda, significa accontentarsi di una lettura distratta di almeno quarant'anni di provvedimenti spesso nati sull'onda dell'emergenza, spesso causa a loro volta di emergenze future, quasi mai collegati tra loro, con l'eccezione dei provvedimenti Ruberti, da una visione d'insieme.

Si tratta ora, con urgenza, di mettere in chiaro alcune regole di fondo. La prima è che l'autonomia delle università in tanto è un valore in quanto è usata bene e se non funziona è necessario accompagnarla con criteri di qualità accademica e regole finanziarie che impediscano ulteriori degnerazioni; la seconda è che le università devono elaborare programmi e progetti ed essere valutate e finanziate a seconda di come li realizzano, anziché navigare a vista cercando di fare tutte di tutto e dappertutto.

Non ha senso imporre centralmente, a priori, missioni diverse per le diverse istituzioni, ma è indispensabile chiedere a ciascuna di concentrare le energie su quanto pensa di poter fare meglio e con maggior profitto per la collettività. Quasi 300 sedi, migliaia di cosi di laurea, oltre 2.000 corsi di dottorato sono cifre che fotografano una deriva bulimica, non una vera espansione organica del sistema. Esigere che l'ampliamento dell'offerta – in qualche misura naturale e giusto prodotto della trasformazione, incompiuta e imperfetta, di un sistema per pochi in un sistema per molti – sia ripensato nel rispetto di standard qualitativi elevati significa prima di tutto impedire che agli studenti meno fortunati si contrabbandino come “università” esperienze di tutt'altra natura.

La valutazione diventa quindi l'asse del sistema. Sarebbe però illusorio pensare che nuove modalità di valutazione della ricerca e della didattica, per quanto incisive, producano dall'oggi al domani effetti taumaturgici. L'esperienza dei paesi da tempo impegnati in questa direzione, come la Gran Bretagna, insegna che ci vuole almeno qualche anno perché la valutazione riesca a permeare i comportamenti e le scelte dei singoli e delle istituzioni.

Certo, in un sistema compiutamente orientato sull'asse autonomia/valutazione non servirebbe richiedere l'abilitazione scientifica per chi aspira a un posto da professore. Prevedere, almeno per qualche anno, che le università siano libere di scegliere i propri docenti tra quanti hanno superato questa preselezione a livello nazionale costituisce oggi, però, il punto di mediazione più spinto tra chi aspira a un sistema del tutto liberalizzato e chi ne teme la dequalificazione terminale. Non è un caso che su questo elemento, decisivo, si sia registrata piena convergenza tra maggioranza e opposizione.

Il destino del disegno di legge dipende molto dalle risposte che sarà in grado di dare a quanti aspirano a dedicarsi alla ricerca universitaria e ai ricercatori e gli associati in servizio, che non solo non hanno beneficiato dell'incontrollata crescita degli organici seguita alla riforma del 1998, ma cui anzi essa ha sbarrato la strada. Qui l'alternativa è secca: o riproporre una soluzione demagogica come quella già esperita, con risultati catastrofici, almeno tre volte negli ultimi quarant'anni, facendo esplodere gli organici con ope legis e immissioni in massa di ruolo, o disegnare un sistema rigoroso che finalmente distingua tra reclutamento e progressione di carriera interna senza annacquare i requisiti scientifici, ma garantendo a ciascun docente il fondamentale diritto ad essere valutato con tempi certi e modalità serie.

Il fatto che la gran parte dei ricercatori, degli associati e dei precari invochi oggi criteri qualitativi rigorosi, non scorciatoie, lascia sperare che forse qualcosa può davvero cambiare per il meglio.