La pensione delle donne di Marcella Corsi e Carlo D'Ippoliti da La Voce.info, 14.7.2010 Dal 2012 l'età della pensione per le dipendenti pubbliche sale a 65 anni. Uno scalone solo per le lavoratrici, dunque. Ma ci sono anche vantaggi. Aumenta infatti la rata di pensione: un fatto positivo se si considera che le donne sono più esposte al rischio povertà in età anziana. Tuttavia i benefici maggiori potrebbero essere culturali. Le regole meno stringenti sull'età di pensionamento sono una sorta di ricompensa per la mole di lavoro domestico e di cura che le donne si assumono. Ora, le nuove norme potrebbero portare a un maggior equilibrio nella divisione del lavoro non retribuito. Ci sono almeno tre criteri per valutare l’eguaglianza tra uomini e donne nel sistema previdenziale. Tuttavia, in Italia, il dibattito è eccessivamente incentrato sull’età di pensionamento, nonostante le donne anziane siano tra gli individui più a rischio di povertà. (1) E le proposte assumono spesso carattere emergenziale, per reagire ai necessari stimoli che vengono dall’Europa.
UNA PROSPETTIVA EUROPEA
È generalmente
riconosciuto che forti sistemi di protezione sociale sono parte
integrante del “modello sociale europeo”. In media, nel 2008, la
spesa per la protezione sociale nei paesi dell’Unione Europea era
pari al 28,5 per cento del Pil (dato Eurostat), per la maggior parte
(63 per cento) destinata a sanità e pensioni.
1.
Adeguatezza: garantire
pensioni adeguate per tutti e un accesso alla pensione che permetta
di mantenere, entro un livello ragionevole, il livello di vita
standard, in uno spirito di solidarietà ed equità generazionale; Trascurando il problema della sostenibilità, gli Stati membri presentano differenze consistenti sia nel grado con cui riescono a garantire un adeguato standard di vita agli anziani, sia nel differenziale di genere. (2)
LE DIFFERENZE DI GENERE La previdenza sociale in Italia è fortemente basata sul sistema pubblico, che è un tipico schema alla Bismarck, nel quale le pensioni sono strettamente legate al mercato del lavoro formale e non, ad esempio, alla cittadinanza. Questa visione è in netta contrapposizione con sistemi alla Beveridge, che invece propongono una pensione pubblica da concedere a tutti in eguale ammontare (universalità della pensione). Si possono evidenziare almeno quattro ordini di cause delle differenze di genere nelle prestazioni previdenziali. 1. Le differenze nell’aspettativa di vita: poiché mediamente le donne vivono più a lungo, sono in grande maggioranza nelle coorti più anziane tra gli anziani, e dunque sono soggette a una maggiore soggezione al regime di indicizzazione, ovvero il modo con cui le pensioni vengono aggiornate di anno in anno (si veda la proposta di Tito Boeri). D’altro lato, se l'equità attuariale è assunta tra i principi del sistema previdenziale, se si vuole cioè che il sistema restituisca nell’arco del pensionamento lo stesso valore versato nell’arco della vita lavorativa (eventualmente incrementato di un certo tasso d’interesse, uguale per tutti), allora la maggiore longevità delle donne implica che riceveranno una pensione più a lungo, e dunque riceveranno lo stesso valore degli uomini solo se le singole rate di pensione saranno più basse. 2. I ruoli di genere, in particolare per quanto attiene alla divisione sessuale del lavoro non retribuito e di conseguenza le differenze di partecipazione al mercato del lavoro, ma anche al fatto che, a differenza di altri paesi, non c’è divisione dei contributi previdenziali in caso di divorzio, ad esempio. 3. dinamiche interne al mercato del lavoro, quali fenomeni di segregazione o discriminazione, implicano differenze nelle dinamiche di carriera o ampi differenziali retributivi. Poiché il sistema italiano, più di altri, lega strettamente le pensioni al reddito da lavoro, in un certo senso “importa” precisamente tutti gli svantaggi sofferti dalle donne. 4. La formula di calcolo dei benefici, che potrebbe presentare sia differenziazioni esplicite tra uomini e donne (ad esempio riguardo l'età pensionabile) sia effetti differenziati di norme formalmente uniformi. Esempi di caratteristiche formalmente neutrali, ma sostanzialmente con ricadute negative in termini di differenziale di genere, sono: il riconoscimento di crediti figurativi per il lavoro di cura solo nel caso di maternità (e non ad esempio per la cura degli anziani); il mancato riconoscimento delle unioni di fatto (le donne sono danneggiate in quanto economicamente “parte debole” della coppia); l’aliquota di finanziamento e di computo più bassa per i lavoratori para-subordinati, tra cui le donne sono sovra rappresentate, che implica pensioni future più basse; potenzialmente, il diffuso ricorso ai pre-pensionamenti e pensionamenti anticipati, quando la titolarità del relativo privilegio è legata alla contribuzione accumulata precedentemente o ad ambigui criteri legati ai “carichi di famiglia”.
LE RIFORME ITALIANE È possibile considerare l’insieme delle numerose riforme previdenziali che si sono succedute dal 1992 ad oggi (Amato, Dini, Prodi, Maroni, Damiano), evidenziando le modifiche che hanno prodotto effetti positivi, negativi o neutri sul differenziale di genere delle prestazioni previdenziali: 1. Riforma Dini, effetto positivo: l’intera vita contributiva è conteggiata ai fini della determinazione del montante contributivo. Questa innovazione incide positivamente perché le donne presentano una dinamica retributiva più contenuta, e il gender pay gap è crescente con l’età: quindi se prima si conteggiavano solo gli ultimi anni di carriera, questi favorivano sproporzionatamente gli uomini. 2. Riforma Dini, effetto positivo: il meccanismo della capitalizzazione composta dei contributi. Simulando una sorta di investimento finanziario per i contributi versati, attribuisce più peso alle fasi iniziali della carriera, quindi valgono le considerazioni del punto precedente. 3. Riforma Amato effetto negativo: l’indicizzazione delle pensioni ai prezzi invece che ai salari. Riduce di più le pensioni per le coorti più anziane, dunque maggiormente per le donne. 4. Riforma Dini, effetto negativo: il rafforzamento del principio individualistico e l’obiettivo dell’equità attuariale. Si trasferisce così ogni differenza di genere presente sul mercato del lavoro al campo pensionistico. 5. Riforma Dini, effetto neutrale: l’uso di coefficienti di trasformazione medi, uguali per uomini e donne. (3) 6. Tutte le riforme, effetto ambiguo: la graduale equiparazione dell'età di pensionamento (ricercata con diversa gradualità).
UN NUOVO SCALONE
Le recenti decisioni
del governo introducono una sorta di nuovo “scalone”, che obbligherà
le lavoratrici pubbliche
ad andare in pensione di vecchiaia a
65 anni dal 2012, con un innalzamento secco dell'età
di pensionamento da 61 a 65 anni.
Figura 1. Età di pensionamento mediamente attesa, prima e dopo le riforme degli anni ’90
NOTE (1) Si vedano i diversi interventi comparsi su lavoce.info (voce PENSIONI) e in particolare l’articolo di Agar Brugiavini (1 giugno 2010). Si veda anche l’articolo di Michele Raitano su www.ingenere.it (15 gennaio 2010). (2) Vedi Corsi, M. e D'Ippoliti, C. (2008), “Poor Old Grandmas? On Gender and Pension Reforms”, The Nordic-Baltic Network on Gender Responsive Budgeting - Discussion Paper, n. 2. (3) Il coefficiente di trasformazione è il numero che, moltiplicato per il montante contributivo accumulato dal singolo lavoratore o lavoratrice, permette di determinare la rata di pensione. Questo valore dipende dall'età anagrafica al momento del pensionamento (e non dall'anzianità contributiva) in quanto scopo della riforma Dini era approssimare l'equità attuariale del sistema, ovvero l'uguaglianza ex-ante del valore attuale del flusso di pensione (rendita vitalizia) ricevuto da ciascun lavoratore/lavoratrice. Poiché attualmente le donne presentano in Italia un’aspettativa di vita sia a zero che a 60 anni superiore a quella degli uomini, e dunque riceveranno mediamente un numero di rate di pensione superiore a quello degli uomini, l'equità attuariale implica che, per poter ricevere lo stesso valore attuale le donne dovrebbero ricevere rate di pensione di importo inferiore. Ovvero, sulla base del principio individualistico, il coefficiente di trasformazione dovrebbe essere differenziato per genere. Alcuni autori sostengono che l’uso di uno stesso coefficiente di trasformazione costituisce un trasferimento dagli uomini alle donne: si veda ad es. Aprile, R. (2009) Differenze di genere nel sistema pensionistico pubblico: un'analisi delle prospettive di medio-lungo periodo, relazione presentata al convegno “Donne e Pensioni”, Sapienza Università di Roma, 4 dicembre. (4) Vedi Boeri, T. e Brugiavini, A. (2008), “Pension Reforms and Women Retirement Plans”, Journal of Population Ageing, vol.1, pp. 7-30. (5) La questione è tanto più grave, quanto più le aspettative si dimostrano in realtà lente e difficili da cambiare, come notano Bottazzi, R., Jappelli, T. e Padula, M. (2006), “Retirement expectations, pension reforms, and their impact on private wealth accumulation”, Journal of Public Economics, vol. 90, pp. 2187-2212. |