Se il pensionamento è forzoso di Alessandro Balestrino e Fabio Ranchetti da La Voce.info, 30.7.2010
Molto ci sarebbe da
dire sull’annunciata riforma dello stato giuridico dei docenti
universitari, ma un aspetto che si segnala negativamente è la
proposta, ben accetta da maggioranza e opposizione e sostenuta con
grande favore da qualche autorevole editorialista, del pensionamento
a 65 anni. A meno di
non immaginare tentazioni populiste da parte dei suoi sostenitori, è
difficile trovare una ratio. In un momento in cui si è capito che,
come conseguenza dell’allungamento delle vite umane, è necessario
prolungare il tempo di lavoro, altrimenti i conti economici saltano,
e anche il nostro governo si muove in tale (giusta) direzione, che
senso può avere quello di andare controcorrente per una specifica
categoria di lavoratori? A parte che la attuale struttura
demografica del personale universitario indurrà a breve comunque una
forte ondata di pensionamenti, perché l’operazione di
“svecchiamento” dovrebbe servire a far entrare in servizio giovani
universitari e non giovani magistrati, giovani medici o giovani
qualcos’altro? COMPORTAMENTI DA FREE RIDER E' noto che, considerando l’economia nel suo insieme, non esiste conferma dell’idea che l’anticipo dei pensionamenti favorisca l’occupazione (Fenge e Pestieau, Social security and early retirement, MIT Press, 2005). Il carico ulteriore sul sistema pensionistico può far aumentare le aliquote contributive e, dato il meccanismo a ripartizione, alzare il costo del lavoro e quindi indurre maggiore disoccupazione. Brugiavini e Weber, proprio su lavoce.info spiegano che l’abbassamento della pensione danneggerebbe gli stessi giovani, anziani di domani che si vedrebbero ridurre la pensione perché verserebbero meno contributi. Certo, se un solo settore riduce l’età della pensione mentre gli altri la aumentano, si comporta da free-riderperché trasferisce sul resto della popolazione i costi generati, e può nell’immediato realizzare l’obiettivo di assumere nuovi lavoratori al posto degli espulsi. È altrettanto certo, però, che tale comportamento è socialmente inefficiente, e, come negli esempi che facciamo agli studenti, può scatenare una sequenza imitativa per cui anche gli altri settori puntano alla riduzione dell’età pensionabile, con conseguenze facilmente immaginabili: si sa che ciò che è razionale per un individuo o un gruppo (ammesso che possa esprimere una qualche volontà collettiva), non sempre lo è per la società nel suo complesso.
Si è detto che il pensionamento anticipato libererebbe l’università da persone improduttive. Senza negare che queste persone esistano, non si capisce perché l’età debba essere un criterio per individuarle. Ad Harvard quasi il 10 per cento dei professori “in servizio attivo” ha più di settant’anni; e di Harvard non si può certo dire che vi abbondino persone improduttive. La via maestra per limitare le difficoltà che abbiamo nell’incentivare la produttività è quella di concepire un sistema di retribuzione e avanzamento di carriera che premi l’impegno nella ricerca e nella didattica (binomio inscindibile). Su questo, le proposte di riforma di governo e opposizione tacciono (o sono quantomeno carenti e confuse). La teoria economica non fornisce dunque appiglio alcuno per giustificare anticipi del pensionamento. (Si consideri anche che i professori anziani svolgono le loro attività di ricerca e di insegnamento a costo quasi zero per lo Stato, essendo il loro stipendio di poco superiore alla loro pensione.) Ma questa non è solo una questione economica, non è solo una questione di teoria. E’ una questione di civiltà, di organizzazione della vita associata, di rispetto e di valorizzazione delle persone, di promozione della cultura e del sapere. È del tutto insensato e, lasciatecelo dire, richiama un sinistro eugenismo, pensare che eliminare da un’aula di insegnamento o da un laboratorio scientifico chi continui a dimostrare entusiasmo e capacità possa essere una cosa positiva, e non un impoverimento netto per un paese. Quando la durata media della vita era settant’anni, i professori di università andavano in pensione a settantacinque; oggi che la durata media è ottantacinque anni, si vogliono mandare in pensione a sessantacinque. Oltre che palesemente assurda e incoerente, la proposta Gelmini-Meloni risulta anche incompatibile con una qualsiasi concezione di società veramente aperta, colta e liberale.
Nota degli autori: AB ha 48 anni (molto distante dall’essere anziano), FR 61 anni (quasi anziano, ma non ancora). |