La meritocrazia dei delinquenti

Antonio Vigilante da Fuoriregistro, 19.7.2010

La Gelmini annuncia il progetto "Qualità e merito", ispirato dal guru Roger Abravanel, autore di un libro che si intitola "Meritocrazia".
Sembra un valore incontestabile, la meritocrazia. Ognuno di noi, quando finisce in ospedale, vorrebbe essere curato da medici preparati e da infermieri competenti; ognuno vorrebbe che il proprio docente universitario - o il docente dei propri figli - occupasse quella cattedra per i suoi meriti, e non per diritto di successione; ognuno vorrebbe, infine, essere governato dai migliori, e non da avanzi di galera.

E tuttavia la parola ha in sé qualcosa di sospetto.

Meritocrazia vuol dire che nella società fa strada chi ha i meriti. E chi decide chi ha i meriti? La scuola, nel periodo di formazione; e poi le commissioni dei concorsi, che selezionano docenti, medici, magistrati, eccetera. Ma come avviene questa selezione?

Consideriamo la scuola. Uno dei momenti in cui la scuola riconosce i meriti o constata i demeriti è l'interrogazione. L'interrogazione ideale, per come la concepisco io, non dura meno di quaranta minuti ed è nulla più di una chiacchierata, durante la quale gli argomenti studiati compaiono quasi casualmente: gira intorno ad essi, per così dire. Come ogni chiacchierata, anche questa chiacchierata sarà punteggiata da pause, incertezze, esitazioni. Nessuno, quando parla di qualcosa, procede spedito come un disco registrato. Se mi chiedete di parlare della cosa che conosco meglio, lo farò comunque prendendomi le pause che mi servono. L'interrogazione reale è qualcosa di molto diverso. Durante l'interrogazione reale, lo studente parla per venti minuti senza quasi prendere fiato. Che nemmeno lui sappia, spesso, quello che sta dicendo, è chiaro dal fatto che usa espressioni stereotipate - ad esempio, ricorre a un improbabile plurale maiestatis, con il "dobbiamo dire che". Non si ferma un momento; se lo facesse, sembrerebbe non aver studiato. L'interrogazione è una dimostrazione: serve a dimostrare che lo studente ha passato un certo tempo su un certo libro. Non dimostra necessariamente che ha imparato. Imparare è una cosa complessa, difficile. Per imparare una cosa bisogna tenerla dentro per un po', digerirla lentamente, metabolizzarla; fuor di metafora: ragionarci su, testarla, criticarla, metterla progressivamente a fuoco per poi tornare a guardarla da lontano. Tutto ciò richiede tempo, ma la scuola non ha tempo. Le interrogazioni incombono, il programma incalza. E dunque quello che l'interrogazione misura non ha assolutamente nulla a che fare con l'apprendimento.

E' bene dirlo con la massima chiarezza. Nessun otto, nessun nove, nessun dieci certifica alcun apprendimento reale. Un dieci significa il più delle volte semplicemente questo: che lo studente sa porsi un obiettivo, e sa come raggiungerlo. C'è a scuola uno spiacevole equivoco. Il fine della scuola è l'apprendimento, che dovrebbe essere anche il fine dello studente. Il voto è solo un mezzo - particolarmente rozzo - per misurare l'apprendimento. Ma il mezzo diventa fine: non si studia per apprendere, ma per avere il voto alto. Per raggiungerlo ci si esercita, come ci si può esercitare per vincere una gara di birra e salsiccia. Si studia Socrate o la sintesi proteica o la derivata. E' indifferente. Quello che conta è raggiungere lo scopo.
Si dirà: ma lo studente si è sacrificato, ha fatto comunque uno sforzo, ed è giusto che vada premiato. Bisogna intendersi sullo scopo della scuola. Se la scuola è una istituzione sacrificale che premia quelli che fanno penitenze sufficienti, allora il discorso fila. Ma una istituzione del genere è una iattura per la società. Non forma nuove generazioni di persone creative, ma schiere di ragazzi frustrati, tristemente conformisti, incattiviti da anni e anni di pratiche prive di significato.

C'è qualcosa di più importante, per la società, del merito: il servizio. Il problema dell'Italia non è, soltanto, che è un paese governato da una cosca di delinquenti. Il problema è che, anche se riuscisse a liberarsene, non avrebbe comunque un governo di persone in grado di servire il paese. In Italia tutti vogliono la distinzione, il potere inteso come possibilità di fare ciò che ad altri è negato. E' questo il cancro che sta consumando il tessuto della nostra società, ed è qui che con urgenza assoluta la scuola è chiamata ad intervenire.

Ma la scuola è malata di quello stesso male. Di più: ne è una delle cause. E' la scuola che insegna la distinzione, più che il servizio. E' la scuola che insegna che la cultura non è una cosa per migliorare la vita di tutti, ma un modo per farsi strada, per diventare di più degli altri. Onestamente, certo. Ma da questa onestà (e chiediamoci però: è davvero tale?) alla disonestà di chi cerca ciacemente di prevalere, di chi si dibatte per non restare indietro nella lotta per lo status, il passo è breve.

Il fatto che un tale governo di criminali irresponsabili ed incapaci parli di meritocrazia dovrebbe suscitare una ilarità irrefrenabile. Se ciò non accade, è per due motivi. Il primo è che ormai la voglia di ridere è passata; questa gente crea un disgusto, una nausea che impedisce i movimenti muscolari necessari per il riso. Il secondo è che si avverte che dietro quella parola c'è quella stessa, miserabile, disperata visione della vita come lotta per il successo che muove (anima sarebbe un verbo inappropriato) questi tragici figuranti della storia.