scuola

Non basta il sapere a fare un prof,
serve il praticantato nelle scuole

Giovanni Cominelli il Sussidiario, 29.6.2010

La bozza di Regolamento sulla formazione iniziale dei nuovi insegnanti, messa a punto dalla Commissione presieduta da Giorgio Israel, ha già attraversato la Commissione Cultura della Camera e ne è uscita onusta di ben 22 condizioni di realizzabilità.

Leggi, decreti, provvedimenti ecc. sono sempre la risultante di molteplici condizionamenti culturali, sociali, politici, amministrativi. Questo è il bello e la fatica nonché la lentezza della democrazia. Nessuno scandalo, dunque! Qui, senza la pretesa o l’illusione di parlare a nome del Bene comune, si vorrebbe tentare di rispondere a tre semplici domande: quali sono le competenze-chiave necessarie di un insegnante? Come se le può procurare? Chi ne accerta e ne certifica il possesso?

Supponiamo che si tratti di un insegnante di matematica. Il giovane aspirante all’insegnamento della matematica deve, innanzitutto, possedere dei saperi. In primo luogo, la matematica (teorie e storie) e le epistemologie e le didattiche della matematica. Dovrà disporre di conoscenze psico-neuro-pedagogiche, che gli permettano di andare incontro a ogni singolo Pierino (avrebbe detto don Milani!). Né sarebbe male se avesse una qualche idea della ormai lunga storia delle istituzioni scolastiche nonché della legislazione e delle politiche più recenti, che hanno costruito l’ambiente della sua futura professione.

Ma fin qui l’insegnante non è ancora nato. Conosce perfettamente la teoria del nuoto, non perciò sa nuotare. Che cosa gli serve in più? Qualcosa che nessuna disciplina specialistica, da qualsiasi istituzione fornita, gli può dare e nessuna università può certificare. Si può chiamare “attitudine, tendenza, inclinazione, predisposizione” o, più solennemente, “vocazione”.

Connotata talora con ironia nella discussione pubblica quasi fosse una qualità mistica, perciò deteriore; esaltata spesso opportunisticamente dalla politica come “missione” (quando vuole far accettare agli insegnanti limitazioni/blocchi di stipendi, in nome, appunto della loro superiore e perciò di per sé gratificante... “missione”), la “vocazione” - in inglese Vocation, in tedesco Beruf (professione/chiamata, appunto!) - implica la scelta della propria posizione nel mondo (ricordate Max Scheler: Die Stellung des Menschen im Kosmos?!) e una passione educativa rispetto alle giovani generazioni.

La vocazione nasce da una visione del mondo e del Sé, che è il prodotto di scelte provvisorie, di incontri con Maestri, di errabondaggi esistenziali “tra caso e destino”, di “spirito del tempo”. Se è lecito un riferimento autobiografico, la generazione che entrò nella scuola negli anni ‘70 - quando spirava un certo “spirito del tempo” -, muovendo da opzioni ideologiche spesso opposte, aveva quella “vocazione”, che originava dalla consapevolezza - ma oggi diremmo, forse, l’illusione - che sul terreno dell’educazione si generava una nuova storia.

Lo specifico della professione docente è che il tuo “mestiere di uomo” è “con-vocato” per intero nella relazione con un altro uomo. Questa vocazione non la dà nessuno, perché non esiste un’Università da dove si esca laureati nel “mestiere di uomo”. Però!... però se ne può accertare l’esistenza in azione. E l’azione si svolge sul terreno della scuola, anzi delle scuole. Lì, sotto la tutorship o la mentorship di insegnanti esperti, si può accertare se il futuro insegnante è capace di stimolare la passione degli apprendimenti, se è in grado di reggere l’urto delle sempre nuove generazioni, che entrano a ondate nelle scuole con l’impeto e la regolarità delle maree, se è persona matura, equilibrata, adulta.

Solo lì, nella scuola, l’insegnante scopre e fa scoprire agli altri, colleghi e alunni, se ha una vocazione autentica e solo lì può farla crescere, raffinarla, continuare la sua opera autoeducativa. Perciò, tornando alle tre semplici domande iniziali, le risposte sembrano essere anch’esse semplici.

1. Le competenze-chiave di un insegnante sono le conoscenze disciplinari generali e specialistiche, le abilità relazionali, la “vocazione”, il saper stare-in-situazione;

2. Le conoscenze teoriche vengono fornite da Istituti superiori di istruzione (università o altri istituti non necessariamente universitari: dipende dal tipo di ordine di scuole in cui si va a insegnare);

3. Le conoscenze “pratiche”, le abilità e la vocazione si sperimentano, si accertano, si migliorano nelle scuole.

Il tracciato formativo che ne consegue prevede: un’università o un istituto pedagogico superiore (cfr. Finlandia) che fornisce le conoscenze teoriche e ne verifica/certifica e certifica il possesso in un periodo definito, dai 3 ai 5 anni; delle scuole-comunità educanti verificano la vocazione, attraverso il praticantato sotto tutorship, che si svolge in contemporanea agli ultimi 2 anni di università almeno in quattro scuole diverse, per quattro quadrimestri: la laurea magistrale si consegue alla confluenza di due percorsi e di due giudizi equipollenti, quello dell’università e quello della scuola.

Ora, se paragoniamo questo iter formativo con quello delineato dal Regolamento per la formazione iniziale, emergono alcune differenze sostanziali. Nel Regolamento, l’egemonia dell’intero percorso e del giudizio finale resta in capo all’Università; alle scuole spetta un ruolo riconosciuto, ma confinato e subalterno. L’itinerario delle acquisizioni disciplinari appare troppo lungo (assurdi 5 anni per le scuole d’infanzia e la scuola di base!) e infarcito di troppe discipline specialistiche (ben 34 discipline!), peraltro solo “infarinate”. Ciò vale per l’insegnamento nei gradi superiori sia per l’esercizio della professione educativa nella scuola dell’infanzia e in quella di base.

Molti fattori hanno condizionato la stesura del Regolamento: le pressioni corporative delle Università, affamate di cattedre, dopo l’abolizione improvvida e acritica delle SSIS; l’idea giusta che le discipline sono il fondamento dell’insegnamento e quella sbagliata che quante più sono e quanto meglio padroneggiate producano automaticamente una buona capacità di insegnare e un buon apprendimento (è qui perdurante e fortissimo il gentilianesimo); la sottovalutazione del valore conoscitivo decisivo dell’esperienza sul campo; la tendenza all’allungamento degli itinerari formativi e all’enciclopedismo, confondendo il Life Long Learning con la dilatazione dei tempi scolastici e universitari e con una congerie poco ordinata e ordinabile di nozioni superficiali.

Questo allungamento dei tempi produce insegnanti sempre più anziani, perché entrano sempre più tardi. E che i nostri ragazzi possano trovarsi d’accordo con questa prospettiva, quale delineata dal Regolamento, non corrisponde a nessuna evidenza e a nessun buon senso. Il bilancio parla da sé: aumento dei posti-cattedra nelle Università. In una parola: hanno prevalso gli interessi delle Università, ben sostenuti trasversalmente nel Parlamento e nell’opinione pubblicata. Contro l’evidenza dei fatti: che il buon insegnante nasce nelle scuole.