SCUOLA

Prof sì, ma come?
Pesano le 2 incognite della nuova legge 

Fabrizio Foschi il Sussidiario 15.6.2010

Il Regolamento sulla formazione iniziale degli insegnanti, sul quale recentemente la Commissione cultura della Camera ha espresso parere favorevole (accompagnandolo però con una serie di condizioni), costituisce un banco di prova della volontà dei soggetti cui compete a vario titolo di disegnare l’identità del futuro educatore di dialogare e di integrare le reciproche funzioni, per il bene della scuola e dunque dell’intera comunità.

Non c’è dubbio che, nonostante il decreto non sia stato ancora approvato (e, come diremo, la cosa preoccupa non poco), passi avanti in questa direzione siano stati fatti, non senza talvolta una dialettica anche aspra tra le parti, di cui questo giornale è stato testimone. È utile quindi focalizzare l’attenzione sugli aspetti positivi acquisiti, rispecchiati anche dagli interventi recenti dell’onorevole Aprea e del professor Israel.

Non è certo da oggi che l’università dialoga con il mondo della scuola (e viceversa) e per certi aspetti anche l’esperienza delle migliori SSIS è stata il banco di prova di relazioni efficaci. A ogni modo, se nella prospettiva della formazione di docenti di qualità, l’università, cui spetta di istituire sia i corsi di laurea magistrale connessi all’insegnamento, sia il tirocinio formativo attivo (TFA), si appresta a sviluppare la preparazione del giovane insegnante incentrandola su una equilibrata combinazione di conoscenze disciplinari e competenze pedagogiche, didattiche e relazionali, non c’è che da rallegrarsi.

È in questa luce, probabilmente, che nella bozza di Regolamento si legge, per esempio, che il laureato in Scienze della formazione primaria dovrà “essere in grado di articolare i contenuti delle discipline in funzione dei diversi livelli scolastici e dell’età dei bambini e dell’assolvimento dell’obbligo di istruzione”.

In effetti il riequilibrio tra il settore disciplinare e quello psico-pedagogico all’interno dei percorsi di laurea magistrale è ben percepibile. Con qualche dubbio, bisogna riconoscerlo, relativo a taluni “residui” (come la “sociologia dei processi culturali e comunicativi” per i futuri insegnanti di lettere della secondaria di I grado) che forse l’esperienza diretta dei corsi, una volta istituiti, contribuirà a chiarire.

È comunque nell’atto della “trasposizione pratica” (è una categoria usata nel documento) di quanto è stato appreso nelle aule universitarie in materiali fruibili dagli allievi della scuola, che risiede il segreto di ogni efficace percorso di insegnamento e apprendimento.

Le discipline, infatti, con il loro corredo di statuto epistemologico e orientamento alla ricerca, devono trovare nella scuola una forma comunicativa adatta, che apra progressivamente le coscienze degli alunni (cuore e ragione) alla realtà da conoscere. Le discipline hanno nella scuola un’importante funzione educativa, e la trovano (o consolidano) se non si riducono a formule o pillole di didattica, ma aiutano l’alunno a fare esperienza della bellezza e bontà di un certo metodo conoscitivo del reale.

Quella “trasposizione” di cui sopra, diventa allora un importantissimo passaggio che interpella come protagonista la figura stessa del docente. È la sua cultura, la sua preparazione, ma anche la sua sensibilità educativa che offrirà nutrimento alla vocazione relazionale e alla passione per la trasmissione di contenuti disciplinari di cui si sostanzia la professione scelta.

In questo senso, mediante il tirocinio formativo attivo (TFA), comprensivo di insegnamenti e laboratori, il futuro docente può verificare le proprie attitudini anche all’interno delle 475 ore (corrispondenti a 19 crediti formativi) svolte direttamente presso le istituzioni scolastiche sotto la guida di un tutor, assumendo progressivamente responsabilità nella gestione della classe.

L’ampliamento di questo pacchetto orario fino alla dimensione attuale si deve, tra l’altro, all’insistenza con la quale, nel dibattito che ha accompagnato l’iter del Regolamento, è stato fatto presente il ruolo della scuola (di ogni scuola inquadrabile nel sistema nazionale di istruzione) che potrà trovare nell’organizzazione del tirocinio motivi per una collaborazione aperta con l’università e, nello stesso tempo, occasioni per uscire dalla tradizionale autoreferenzialità.

Era forse preferibile, al posto dell’anno di tirocinio, prevedere un anno di praticantato e immettere direttamente il giovane insegnante in una situazione di lavoro, con tutti i crismi che questa parola comporta? Forse sì. Probabilmente motivazioni di carattere normativo e sindacale hanno costituito ostacolo: il timore dello scivolamento verso nuovo precariato, anzitutto.

E tuttavia il documento presenta una mediazione (interessante) tra l’ammissione al tirocinio per l’abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria (di I e di II grado) di chi ha i soli titoli riconosciuti (laurea magistrale) e chi, privo di abilitazione, ha svolto almeno 360 giorni di insegnamento nella classe di concorso di riferimento.

In questo secondo caso, nella bozza di Regolamento il servizio prestato è riconosciuto e vale a coprire 10 crediti formativi relativi al tirocinio “in situazione” e 9 crediti per la partecipazione ai laboratori didattico-disciplinari, previo superamento della prova d’accesso al corso.

A questo snodo stesso si rifanno importanti puntualizzazioni espresse nel parere della Commissione VII e nell’intervento su queste pagine dell’on. Aprea. Si chiede di garantire a chi si trova nella condizione accennata (360 di servizio; mancanza di abilitazione) l’accesso al percorso di tirocinio abilitante mediante due condizioni: la verifica della preparazione disciplinare (rispetto a quanto stabilisce il regolamento, sarebbe più equa la sola prova orale) e la valorizzazione del servizio svolto.

Riteniamo che queste condizioni, insieme alla programmazione degli accessi (solo quelli con 360 giorni di servizio vengono ammessi in soprannumero), costituiscano un filtro sufficiente ad ammettere sia chi ne ha i titoli, sia chi oltre ai titoli ha anche riconosciute competenze maturate sul campo.

Non si sarebbe obiettivi, tuttavia, se insieme ai guadagni realizzati finora non si accennasse a due rischi. Il primo è il ritardo nell’emanazione del Regolamento che potrebbe comportare un altro anno di vuoto normativo, non solo in materia di nuovi corsi di laurea magistrale (sebbene alcune università siano già pronte, assicura il prof. Israel), quanto nell’avvio della fase transitoria del solo TFA.

Riteniamo che l’ulteriore dilazione sarebbe una sconfitta per chi ha inteso trasmettere una passione educativa ai giovani che hanno deciso di puntare sul lavoro di insegnante; in secondo luogo, la scuola stessa e l’università rischierebbero a lungo andare una certa asfissia.

L’altro rischio connesso a questo ordine di questioni è l’assenza di una chiara prospettiva sul sistema di reclutamento dopo l’abilitazione. Vero è che il nesso automatico tra abilitazione e inclusione nelle graduatorie per l’insegnamento (tranne quelle di istituto) è tagliato nel momento in cui le seconde sono state dichiarate chiuse e a esaurimento.

Ma proprio per non ricadere in certi automatismi che hanno alimentato il precariato, sarebbe produttivo dare segnali di una via al reclutamento non più vincolata alla macchina del centralismo e più vicina alle esigenze delle scuole autonome e dei loro profili di offerta formativa.