Scuola

Brunetta e Gelmini vogliono
più pensionati ma senza assumere i precari

Il “pensionamento forzoso” è il nuovo glorioso orizzonte apertosi fra gli insegnanti. Per far posto ai giovani? La “riforma” Gelmini fa sorgere molti dubbi al proposito. Una docente romana racconta la sua esperienza

di Fulvio Lo Cicero da Dazebao, 10.2.2010

ROMA – La razzia prosegue alacre. Quella dei dipendenti pubblici, compresi gli insegnanti della scuola statale. Le norme approvate dalla maggioranza di governo prevedono, infatti, il collocamento a riposo della maggior parte del personale che abbia maturato determinati requisiti. Tutto per sfoltire gli organici. Essendo bloccato il turn-over, il fine è quello di diminuire il numero dei dipendenti pubblici, sui quali, come noto, preme la cappa di una scarsissima considerazione da parte del ministro Renato Brunetta.

Fino a qualche anno fa, anche i solerti rappresentanti della maggioranza si facevano paladini di un allungamento dell’età lavorativa. Impensabile che oggi, con l’allungamento della speranza di vita, un uomo o una donna vadano in pensione a 60 anni, si diceva. Oggi la barra direzionale è stata girata da tutt’altra parte. Oggi non solo è “pensabile” pensionare un sessantenne ma diventa addirittura obbligatorio, in alcuni casi.

Schizofrenia legislativa. Nel dicembre del 2008, dopo che la Corte di Giustizia dell’Unione europea aveva condannato l’Italia a causa del diverso trattamento fra uomini e donne per l’età pensionabile (65 anni i primi, 60 le seconde) Brunetta aveva anticipato la sua intenzione di equiparare la loro condizione, portando a 65 l’età di pensionamento delle lavoratrici. Il supposto adeguamento, aveva dichiarato il ministro, avrebbe consentito di «dare delle risposte di equità, di non discriminazione della donna nel mondo del welfare previdenziale e del welfare familiare».

Cambio di rotta. Ora, per effetto dell’articolo 72 della legge n. 113 del 2008, passa in secondo piano il criterio dell’equità nell’età del pensionamento per far posto a quello del rigore finanziario: meno lavoratori nel pubblico impiego, più pensionamenti. Ma così non si aumenta il deficit delle casse previdenziali?

Elena Adilardi è una combattiva insegnante romana di lettere. 60 anni (ma non li dimostra), una vita dedicata ai suoi alunni e al sindacato. Dovrà andare in pensione il 1° settembre di quest’anno, perché, appunto, anche il Ministero della pubblica istruzione si è dovuto adeguare alla “direttiva Brunetta”. «Un sistema basato sulla totale discrezionalità dell’amministrazione» dice la docente, «perché il Ministero di viale Trastevere non ha un’anagrafe degli insegnanti e dunque non è in grado di sapere quali siano quelli che hanno raggiunto l’anzianità contributiva di 40 anni». Così ci si affida ai presidi e alle scuole, che devono segnalare al Ministero i nomi giusti; si può immaginare il caos. Lei avrebbe voluto rimanere, anche perché fresca vincitrice di concorso per svolgere il suo lavoro in Spagna, nelle scuole italiane. «Ma la mia non è una protesta dovuta ad egoismo» precisa ed aggiunge: «Io sarei ben contenta di andarmene e non farei tante storie se fossi sicura che la mia cattedra andasse ad un precario. Ma tutti questi pensionamenti preludono ad una cosa sola: a sfoltire i ranghi, a tagliare i posti di lavoro, facendo credere a colleghi che aspirano ad una stabilizzazione che stanno per coronare il loro sogno. Purtroppo non sarà così».

Che le ipotesi della docente romana siano reali lo illustra la stessa “riforma” Gelmini, che, fra le altre cose, prevede copiosi accorpamenti di cattedre, l’aumento del numero medio degli alunni per classe, il taglio del monte-ore settimanali nelle scuole superiori. Misure che produrranno un pesante ridimensionamento degli organici. «Ed allora? Come fanno i sindacati e i precari a sperare che dai nostri pensionamenti si ricavino nuovi posti di lavoro?» dice ancora la professoressa Adilardi.

Ma al danno bisogna aggiungere la beffa. La docente romana, ora come ora, non ha i fatidici 40 anni di contributi ma soltanto 37. Per raggiungerli, ed anzi superarli, avrebbe bisogno di un decreto da parte del Miur di Roma (l’ex Provveditorato agli studi) che le riconoscesse gli anni di precariato prima dell’entrata in ruolo, con i quali raggiungerebbe il massimo. Ma al Miur sono in arretrato per decenni e non sono in grado di esaminare tutti i fascicoli per il riscatto della laurea e per gli anni di precariato; per questo non producono i decreti. «Una situazione irreale» dice la docente, «da un lato l’amministrazione mi individua e mi impone il pensionamento perché ho più di 40 anni di contributi, dall’altro la stessa amministrazione non è in grado di accertare che ho 40 anni di contributi. Per questo ho dovuto subire una specie di ricatto: se rinuncio ai contributi dovuti per la laurea e il pre-ruolo, non mi mandano in pensione e io perdo un bel po’ di soldi!».

Un dubbio finale assale la docente: «La maggior parte dei colleghi nelle mie condizioni sono contentissimi di andarsene. Sembra quasi la decapitazione di un’intera generazione, quella che ha fatto l’università negli anni Settanta, gente critica e di sinistra. Sono sicuro che a lorsignori la cosa non dispiace. Anzi. Che dietro a questi provvedimenti ci sia anche il desiderio di desertificare lo spirito critico nella scuola pubblica?».