Scontri a Roma, Mario Monti:
politica cieca, rubato il futuro ai giovani

Il presidente della Bocconi e le ragioni degli studenti:
«Ma la riforma Gelmini è un passo importante»

di Luca Cifoni Il Messaggero, 20.12.2010

ROMA (20 dicembre) - «Sbagliata l’occasione, sbagliato il metodo, ma sacrosanto il tema di fondo: cioè il fatto che se le cose continuano così per i giovani non c’è davvero futuro». Il professor Mario Monti, presidente dell’Università Bocconi e per dieci anni commissario europeo, sintetizza così il suo pensiero.
E sottolinea le responsabilità di un sistema politico che con la sua «vista cortissima» e il suo «dibattito impresentabile» allontana i giovani facendoli sentire non rappresentati.Lei dice che è sbagliata l’occasione, cioè contestare la riforma Gelmini.
«Il disegno di legge Gelmini è un passo importante verso un sistema universitario più moderno e più funzionale. Trovo positiva la riforma degli organi di governo, la maggiore autonomia nella gestione del corpo docente, l’abolizione dell’attuale sistema dei concorsi. Nell’insieme, si riduce la presa del sistema corporativo sull’università. Come in altri campi, dai settori produttivi poco concorrenziali, alle professioni, alle amministrazioni pubbliche, c’è bisogno di togliere un po’ di potere a chi produce i servizi e darne di più a chi li deve ricevere, gli utenti e i consumatori. In questo senso mi pare che la riforma Gelmini vada incontro agli interessi degli studenti».

Al di là dei suoi contenuti, la legge viene criticata per la contemporanea riduzione delle risorse destinate all’università. Qual è il suo parere?

«Le risorse sono sicuramente un problema ma non credo abbia senso gettare denaro in un sistema che funziona nell’interesse della corporazione universitaria invece che della qualità. Quindi l’ideale sarebbe riformare il sistema ed avere più possibilità di finanziamento».

Il metodo sbagliato è invece la violenza?

«Naturalmente. Quando le forme di protesta sono violente è giusto che la collettività si tuteli, anche sotto il profilo dell’ordine pubblico».

Allora su cosa hanno ragione i giovani che scendono in piazza?

«Glielo spiego. Nel 1998 intervenni al Meeting di Rimini, allora si parlava di sciopero generale contro la riforma delle pensioni. Io dissi che sarebbe stato meglio pensare a uno “sciopero generazionale”. Le generazioni future pagano il prezzo di garanzie eccessive per quelle che le hanno precedute. Quella dei giovani oggi è una generazione invisibile che annaspa tra disoccupazione, ruoli effimeri, eterni itinerari scolastici e rassicurante permanenza in famiglia».

Di chi sono le responsabilità?

«C’è un sistema politico che ha una vista cortissima. Fino a pochi giorni fa l’orizzonte temporale era il 14 dicembre. Ora non so quale sarà, ma certo non molto lontano. In Polonia la classe dirigente e l’opinione pubblica discutono su un documento presentato dal governo intitolato Polonia 2030. Noi non abbiamo neanche colto l’occasione del Piano nazionale delle riforme, mandato recentemente a Bruxelles come richiesto dalla Strategia Ue 2020, per avviare un minimo di dibattito pubblico. Chi soffre di più di questa mancanza di disegno sono proprio i giovani. E meno male che c’è l’Europa, che almeno pone qualche paletto a tutela del futuro, come in materia di ambiente o di debito pubblico; ma questo non basta».

Cosa servirebbe?

«Ci vorrebbe una visione ampia e molto concreta, un’attenzione alla tendenza inerziale che si avrebbe da qui a dieci o venti anni non facendo nulla. L’Italia verrebbe sempre più spiazzata dalla concorrenza internazionale. Guarda caso, proprio la riduzione delle rendite e dei privilegi, l’aumento della concorrenza, cioè la ricetta che aiuterebbe i giovani, è anche quella che serve per sbloccare tutto il Paese. Invece da noi maggioranza e opposizione si aizzano le corporazioni una contro l’altra. Per questo in passato ho detto che servirebbe un progetto comune tra le forze riformatrici di tutti gli schieramenti».

Perché a differenza di quanto avvenuto in passato le giovani generazioni non si sentono rappresentate dalla politica?

«La qualità del dibattito politico, che è diventata impresentabile, allontana i giovani, ha un effetto pesantemente diseducativo. La realtà non è bianca né nera, servirebbe una leadership che rappresenti le difficoltà del Paese ma allo stesso tempo dia speranza. I giovani sono maturi, questo darebbe loro il senso di un contatto. È anche questione di linguaggio. Ad esempio, è vero che in certi casi la pressione fiscale è troppo elevata, ma se per riferirsi alle tasse in generale si dice che “lo stato mette le mani nelle tasche degli italiani”, è difficile che i cittadini sentano di far parte di una collettività responsabile. Insomma, tra chi dice che non c’è crisi e chi va sui tetti, forse bisognerebbe andare in cantina, in profondità, per dare un’occhiata alle fondamenta».

Molti dei problemi che lei segnala, chiusura alla concorrenza, visione corta, forse c’erano anche 15 o 20 anni fa. Perché i nodi vengono al pettine ora? Non pensa che c’entri qualcosa anche la precarietà lavorativa, che pure è stato il risultato della volontà di sbloccare il mercato del lavoro?

«La crisi riduce i margini per tutti, e anche lo spazio di intervento per uno Stato che deve contenere il disavanzo di bilancio. Quel che è mancato è la crescita. C’è stata una forzata concentrazione sulla disciplina dei conti. Ma sarebbe servito accanto all’efficace ministro dell’Economia e delle Finanze un forte ministro per lo Sviluppo economico, dotato di adeguati poteri. In molti Paesi del resto è lo stesso primo ministro che guida le politiche di sviluppo. Da noi il ministro per lo Sviluppo non lo abbiamo avuto per mesi, mentre il presidente del Consiglio, diciamo così, è stato occupato anche da altre questioni. Bisognerebbe forse fare come la Germania, che per un certo periodo ha avuto un “ministro del Futuro”. Potrebbe dare una voce alla prossime generazioni che sono sottorappresentate, perché non votano o addirittura non sono ancora nate».