il caso

Benvenuti alla media
Tito Livio la scuola con obbligo di divisa

Magliette bianche e felpe blu, con il logo della scuola
stampato a contrasto: è così da 12 anni

 Anna Paola Merone Il Corriere del Mezzogiorno, 15.4.2010

NAPOLI— Magliette bianche e felpe blu. Con il logo della scuola stampato a contrasto: l’immagine di Tito Livio con la sigla della certificazione di qualità di cui l’istituto si fregia da 8 anni. Benvenuti a Napoli, nella scuola media statale di largo Ferrandina a Chiaia, intitolata al grande storico latino dove da 12 anni agli studenti è richiesto di indossare la divisa per partecipare alle lezioni e per prendere parte ai numerosi viaggi d’istruzione organizzati dal corpo docente.

Per maschi e femmine l’indicazione è unica: polo o t-shirt e, sopra, una felpa. Indumenti che si acquistano a scuola, che vengono realizzati su indicazione del Consiglio d’Istituto da una azienda di San Giuseppe Vesuviano. Per il resto la scelta è libera: un jeans o anche pantaloni della tuta. Il risultato è di quelli che non passano inosservati. Il mare blu e bianco di studenti che dalla sala musica si spostano in quella dedicata alle prove del teatro dà una sensazione di ordine e compattezza. Proprio come quella che comunicano quelli che seguono il corso di latino o la lezione di matematica nelle aule. O i ragazzi delle terze che alle 14 di ieri si sono messi in viaggio, direzione Barcellona. Tutti rigorosamente in divisa, anche se i jeans scelti per affrontare la traversata sono particolarmente di tendenza e le sciarpe al collo personalizzano i look. Treviso è un luogo lontano da qui. È la città dalla quale è rimbalzata la notizia della recente adozione, da parte del preside, della divisa per i suoi studenti. «Mi hanno chiamato da tutta Italia — sorride la preside della Tito Livio, Giovanna Esposito— per chiedermi quando e come da noi è arrivata questa rivoluzione. L’ho introdotta io, 12 anni fa, quando sono arrivata. Venivo da Ponticelli e anche lì avevo chiesto ai ragazzi di indossare la divisa».

In questa scuola media, unica a Napoli ad aver ottenuto la certificazione Iso 9001, si lavora con le porte aperte. E’ spalancata quella dell’ufficio del capo di istituto dove alunni, insegnanti, ma anche genitori sanno di poter contare sempre su un interlocutore. Sono aperte le porte delle classi, dove si fa lezione in una atmosfera che ha poco a che fare con l’idea della scuola meridionale che si ha da Roma in su, è aperta quella della sala computer e quella delle segreteria. «Le regole qui sono chiare per tutti e in questa atmosfera si lavora con grande serenità. Qui non vogliamo pance e mutande all’aria — avverte la preside —. Per me la scuola è sinonimo di serietà e credo ci sia un abito giusto per ogni occasione. I miei 730 ragazzi sanno che questo è un luogo dove l’educazione passa anche per il rigore formale. E la divisa, oltre ad uniformare l’immagine degli studenti, dà loro un senso di appartenenza, identificazione. Diciamolo pure: è anche una questione di compostezza». Ma come hanno recepito i ragazzi e le loro famiglie questa imposizione dall’alto? Generalmente bene e le classi che si uniformano in maniera più compatta alla divisa sono quelle dove gli insegnanti sono più vigili rispetto ad altri. E’ una platea mista quella della Tito Livio, una scuola che è un po’ il paradigma della città obliqua. A monte i Quartieri Spagnoli con qualche ragazzo difficile, qualche caso per cui si deve anche lavorare sulla scolarizzazione e molte scommesse difficili da vincere. A valle via dei Mille, piazza dei Martiri, le strade nobili della città.

I professionisti, le famiglie che hanno fatto la storia di Napoli e quelle che la stanno scrivendo in questi anni. In mezzo, fra il popolo e la città alta, un po’ di piccola borghesia. «La scuola, la nostra scuola — spiega il Capo di Istituto — ha scelto di mettere le famiglie al centro del processo di crescita dei ragazzi. Quando li iscrivono firmano un patto di corresponsabilità educativa e formativa. Noi facciamo la nostra parte, ma le famiglie devono essere coinvolte a pieno titolo. Ed essere con noi nelle scelte. Non remare contro». I ragazzi sciamano dopo la campanella. I jeans sotto le felpe. Ai piedi qualche paio di Hogan, molte Adidas coloratissime, le ballerine, le cartelle a tracolla. «Se non ci fosse la divisa — osserva la preside con un sorriso — molti sarebbero tentati da un altro tipo di uniforme, quella generazionale: le mutande di fuori, le magliettine striminzite, i colori psichedelici invece del bianco e del blu, gli orecchini e i brillantini al naso. Meglio insegnare loro, fin da subito, che una scuola non è una discoteca e che l’unica vera intolleranza va manifestata verso chi ha comportamenti non adeguati al luogo dove si trova».