Meglio Gelmini che Formigoni

 Federico Orlando da Europa, 23.4.2010

Gelminizziamoci (si fa per dire).

Non perché sia molto brava, come dice divagando Berlusconi.

Ma perché in questo momento si stanno scontrando due politiche di organizzazione scolastica, quella nazional-federalista della ministra e quella regional-vandeana del governatore lombardo.

Se vogliamo restare, o meglio entrare nel realismo politico, e non sfogliare il libro dei sogni, a noi che federalisti non siamo ma nazionali sì, nel senso dell’ unità e del “patriottismo costituzionale”, conviene guardare con interesse al ministro. Primo, perché rivendica al governo nazionale le linee della politica e dell’organizzazione scolastica, come prevede perfino il Titolo V da noi (Ulivo) riformato nel 2001 con troppa frenesia regionalistica.

Secondo, perché c’è un moderno don Albertario, il prete lombardo che dopo l’unità predicò nelle campagne l’“odio” per i frutti del Risorgimento, che vuole realizzare lui un modello, quello sì vandeano, di scuola lombarda, da contrapporre alla scuola nazionale.

Con una carica esplosiva almeno altrettanto forte del federalismo fiscale.

In questi giorni si è parlato e scritto molto sul progetto gelminiano di sostituire la graduatoria nazionale degli insegnanti con graduatorie regionali, dalle quali le scuole dovranno attingere i loro docenti. In teoria, la regionalizzazione serve a stoppare il malcostume di molti insegnanti meridionali che vengono assunti in Lombardia o in Toscana e il giorno dopo cominciano a sgomitare per tornare, quale fantasia, al paesello natio. Abbiamo scritto “in teoria” , perché – ricorda il costituzionalista Ainis – per evitare il malcostume del ritorno a casa e garantire un minimo di continuità didattica nelle scuole è sufficiente una norma, un rigo, che ricalchi quella in vigore nelle università: chi ha vinto il concorso per una cattedra, non può lasciarla prima di 3 (o 5) anni. Facile e onesto, no? Ma la Gelmini e il suo pigmalione di Arcore hanno altre esigenze: debbono accontentare il Lord Protettore, Bossi, al quale debbono concedere, se non sempre la sostanza, almeno la forma del federalismo. E la forma consiste appunto nel reclutamento degli insegnanti attraverso concorsi regionali e nell’obbligo – che condividiamo in pieno – di restare per alcuni anni sulla cattedra conseguita. Tale obbligo potrebbe escludere la necessità (o bandiera) del concorso regionale, risolvendo da solo il problema della continuità didattica.

Ma è su questo punto che il confronto tra l’opposizione e la maggioranza parlamentare dev’essere portato, nella speranza di depotenziare la riforma del contenuto ideologico, e di lasciarle quello pedagogico- didattico. Sempre che ne abbia qualcuno, visto che il vuoto è l’elemento in cui si muove da qualche anno la riforma scolastica permanente.

Tutt’altra musica per l’operazione Formigoni, lumbard di formazione anarcoclericale, naturalmente felice di far strame d’ogni cultura unitaria nazionale: quella che spinse migliaia di docenti del Nord a scendere dopo l’unità nel Mezzogiorno – ricorda Marco Rossi Doria- e ad esprimere – aggiungo io – gli apostoli settentrionali del meridionalismo: come Umberto Zanotti Bianco. Dovendo partire da zero, essi cominciarono a creare scuole nei villaggi che mai ne avevano viste e a dotarle di piccoli ambulatori contro il tracoma, la malaria e la tubercolosi. Magnifica e dimenticata pagina di apostolato laico, arricchita dopo la seconda guerra mondiale da sinceri cristiani, Vanoni, Saraceno, per dire.

Ma Formigoni è rimasto al «vecchio sogno cattolico di una scuola lombarda e settentrionale», dove l’assunzione in loco dei docenti è solo parte di ben altro disegno: quello di «uno Stato che sia garante delle condizioni di un gioco educativo, dal quale si tira fuori» (Adolfo Scotto di Luzio). Questo disegno prevede di abolire di fatto «la differenza tra scuola pubblica e privata, a vantaggio di un sistema misto: in cui la famiglia è finanziata con denaro pubblico (incrementato al Nord dal federalismo fiscale, ndr) nella scelta della scuola più adatta per qualità e conformità ideologica (!!!), spacciata come “offerta formativa”». Scritte oggi, queste cose fanno rabbrividire sotto il Po, ma oltre il Po se ne parlava tranquillamente in parrocchia e a scuola, negli incontri di genitori, docenti, alunni, preti, amministratori, ossia “comunità educante”.
Comunità, non stato. È questa la bandiera sociale della scuola lombarda. Che Formigoni perfezionerebbe nel controllo finale e completo dell’insegnamento tecnico professionale, dove esigenze delle aziende e gestione scolastica s’incontrano e provvedono alla socializzazione di quelli che una volta si chiamavano i “figli del popolo”.

Il tutto benedetto dall’acqua santa, che se ne giova a sua volta ben più delle eccezioni di monsignor Fisichella sulla comunione ad personam per i divorziati di lusso.
Se questo è un pezzo del gioco enorme che si fa con la pubblica istituzione (non per altro Mussolini l’aveva ribattezzata Educazione nazionale), è bene che le forze dell’opposizione politica e sociale si propongano di starvi nel mezzo, senza distrarsi: come invece può logicamente accadere al sindacato, sulle graduatorie a esaurimento e sui sempre risorgenti precari; o alle scuole di pedagogia, che debbono occuparsi di contenuti dei programmi e di attitudini a insegnarli. Altro che «forma partito» e «manovre con i quadri».

Qui si tratta di inserirsi con idee proprie nei varchi aperti dal conflitto tra le varie anime dei conservatori e revanchisti, e in questo dovrebbero essere d’aiuto gli intellettuali, se mai uscissero dal loro silenzio modello Anni Trenta.