scuola

Si può “insegnare” a scrivere?
Sì, ma la tecnica non basta…

Daniela Notarbartolo il Sussidiario, 3.8.2010

È possibile “insegnare” a scrivere? Scrivere infatti è un atto di conoscenza di sé e del mondo, e la competenza richiesta dipende innanzitutto da come uno percepisce se stesso. Nessuna tecnica può sostituire questo punto di partenza.

D’altra parte, scrivere richiede anche un vero apprendistato: in tanti anni di insegnamento ho incontrato ragazzi dall’umanità trasbordante, che non avevano gli strumenti per dirsi, per la confusione interiore in cui non sapevano mettere ordine, o perché semplicemente non sapevano che lo scritto non è la trasposizione grafica del parlato.

All’interno del dibattito sullo scritto, e dopo un mio articolo precedente, vorrei riprendere il tema presentando i due versanti, che sono uno inscindibilmente legato all’altro, e vanno entrambi “educati” e portati a riflessione.

Per scrivere occorre innanzitutto una posizione umana. Del resto, scrivere non è un “compito scolastico”: si scrive non solo per comunicare, ma per capire cosa si ha dentro di sé; è questa l’esperienza di chi scrive un diario, ma anche un racconto, una poesia e persino una descrizione. In questo senso la scrittura è prima di tutto un’esperienza, che non tutti riescono a fare in tutta la sua ricchezza.

La persona che scrive attraverso la pagina scritta chiarisce a se stessa il proprio pensiero attraverso l’atto dello scrivere, e solo secondariamente espone se stessa al potenziale lettore, il che richiede fiducia di avere in sé qualcosa che vale la pena dire ad altri. Scrivere richiede disponibilità a mettersi in gioco, fiducia in chi leggerà, volontà di essere capiti, e quindi sforzo di chiarezza, di completezza, per permettere a chi legge di entrare a tutto tondo in quello che gli viene proposto.

Entrambe queste cose sono il frutto di un’educazione che avviene all’interno di un clima della classe in cui ciascuno sia sentito come una ricchezza per se stesso e per gli altri.

Scrivere poi significa saper cogliere nella realtà quello che colpisce l’occhio, per trarne qualcosa di significativo per sé e per gli altri. Talvolta sembra che basti proporre solo ciò che colpisce, senza che sia necessario imparare a coglierne un plusvalore positivo di significato.

Certe manifestazioni di comunicazione mediatica scoraggiano persino perché sono la fiera del non senso: se tutto è relativo, se la verità non esiste, allora non c’è niente di importante da conquistare e da mostrare ad altri, e domina il non-senso. A che scopo distinguere il bello dal brutto? Invece, ad avere occhi, persino in un oggetto banale la realtà ci sfida continuamente: anche solo nei particolari, ci mostra quante cose si possono vedere diversamente dal solito, tanto da rimanerne stupiti.

Se si guarda all’esperienza, se si guarda a ciò che ci circonda, a ciò che immediatamente ci colpisce, anche le cose semplici sono interessanti. La descrizione di oggetti minuti, come una semplice puntina da disegno o il meccanismo di funzionamento delle lancette dell’orologio, è estremamente impegnativa e richiede lealtà con il dato. Qualunque ragazzo, se guarda alla propria esperienza, sa descrivere quello che lo circonda, sa raccontare qualcosa. Naturalmente a patto che ci sia qualcuno interessato a leggere quello che lui scrive.

Saper guardare però non è scontato e richiede allo stesso modo una educazione. In ogni caso, è il primo modo di mettere in movimento quella che viene chiamata creatività: reagire di fronte alla realtà, che si pone come fonte inesauribile di scoperta.

Spesso non si riesce a scrivere, tanto è il disordine interiore. Non si riesce a mettere in fila le frasi e i pensieri, tanta è l’abitudine a dire “qualsiasi cosa” a ruota libera, e la desuetudine a una qualche “disciplina”, intesa come disciplina sportiva, cioè allenamento richiesto per raggiungere una meta. Dare un significato consiste nel trovare un ordine, collegare le parti perché abbiano un senso, una direzione: il senso è letteralmente la direzione del movimento, dove il percorso di scoperta fa da guida.

Per questo non c’è errore peggiore che pensare lo scritto come la versione grafica del parlato: pagine e pagine senza un capoverso, senza una costruzione pensata, come un torrente in piena.

Quando si scrive, le esperienze e i fatti, i pensieri e le osservazioni vengono messe su una linea, e ciò significa che vengono disposte secondo un ordine almeno temporale, prima-poi, e questo già di per sé dà ordine, perché assegna un posto a ciascuna cosa.

Nell’età del disordine mentale, quando si ha bisogno di chiarire a se stessi chi si è, scrivere è molto utile di per sé, anche se quello che si scrive non è immediatamente “utile” o “funzionale” (una relazione, un verbale, ecc.). Rileggere quello che si è scritto a distanza di qualche giorno fa capire moltissime cose che non si erano percepite all’inizio.

Non si può sapere, fino a che non lo si sperimenta, quale valore di oggettivazione di sé ha l’azione dello scrivere: scrivendo si rimette in ordine la “casa interiore”. Il caos diventa qualcosa d’altro, in ogni caso.

Dunque, c’è un profilo antropologico che supporta la scrittura, che non si riduce affatto a una tecnica. L’insegnante, se vuole insegnare a scrivere, deve curare anche questi aspetti: che lo studente si metta in gioco, faccia un’esperienza, impari a guardare e a porre domande, si serva di quello che studia per organizzare i suoi pensieri e riordinare il magma fluido della sua umanità.

Poi, come sempre, c’è anche un profilo “tecnico”. Chi scrive maneggia lo strumento linguistico, che deve essere rispettato per quello che è: non tutte le espressioni sono giuste, corrette, funzionali. L’errore di ortografia o di grammatica, prima ancora di essere un difetto “scolastico”, è un fattore di rapporto sconnesso con il dato, e per questo espone a forte esclusione sociale: chi fa errori viene immediatamente sentito come inadeguato nel campo suo proprio.

Un medico che sbagliasse gli apostrofi nella ricetta o nel compilare la cartella clinica, sarebbe considerato affidabile? Un tecnico che non fosse in grado di descrivere correttamente i procedimenti che ha applicato, li avrà poi fatti correttamente? Un impiegato di qualunque ufficio che non sta attento alle doppie e alle h, avrà l’attenzione necessaria a svolgere le pratiche che gli sono affidate?

Peraltro, sono pochi coloro che scrivono di getto una versione già perfetta: di solito si ritorna sulla pagina e la si perfeziona. Purtroppo a scuola si dà poca importanza al processo della stesura, che ha una sua durata e richiede un’attenzione mirata.

Uno scritto buono nasce dall’affinamento del gusto. Quello che è veramente difficile infatti è accorgersi che qualcosa non va, dare il nome alle imperfezioni, riconoscerle come tali. All’inizio una frase sconclusionata all’alunno non fa affatto tutta quell’impressione negativa che fa al professore ! Una volta individuata una formulazione che non convince, bisogna essere disposti a manipolarla, trasformarla, osservare l’effetto della modificazione prodotta, provare diverse strategie possibili per la realizzazione dello stesso contenuto, e attraverso la manipolazione diventare flessibili nella produzione.

Per questo bisogna avere alle spalle un buon apprendistato, cioè aver imparato a maneggiare le espressioni linguistiche: è il secondo versante, che riguarda specificatamente l’educazione linguistica, come potremo vedere in altra occasione.


(Fonte: GrammaticaNuova, ed. Bulgarini)
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