Oggi siamo in una situazione nuova e
L’ora di religione islamica Paolo Pombeni, Il Messaggero 19.10.2009 IL DIBATTITO che si è aperto sulla proposta avanzata dall’on. Urso di introdurre nelle scuole un’ora di religione islamica non è di quelli da prendere sottogamba o da buttare subito in pasto agli integralismi degli opposti schieramenti. Si tratta invece di misurarsi con una trasformazione reale della nostra società, rispetto alla quale non giova a nessuno mettere la testa sotto la sabbia. Ormai la religione islamica è la seconda religione in Italia e non riguarda nel senso classico una “minoranza”, mentre, anche questo sarebbe bene riconoscerlo serenamente, il cattolicesimo a sua volta si è ridotto, anche valutando la pratica religiosa con una certa larghezza, ad interessare una quota non più maggioritaria nel Paese. Nel contesto di questa realtà, che è piuttosto diversa anche solo da quella di quasi trent’anni fa quando venne rivisto e rinnovato il Concordato tra lo Stato e la Chiesa Cattolica, arroccarsi su visioni aprioristiche non ha molto senso, ma non lo ha neppure buttarsi acriticamente su soluzioni che possono sembrare risolutive, ma che non sono affatto prive di problemi. Vediamo di ragionare pacatamente su qualche passaggio. Il primo tema riguarda l’opportunità o meno di consentire la “tribalizzazione” del nostro sistema scolastico, legalizzando e legittimando per così dire l’esistenza di gruppi diversi che il sistema riconosce in quanto tali tanto che assegna loro spazi specifici al suo interno. Su ciò esiste un grande dibattito ed anche esperienze non positive in altri Paesi, per esempio in Gran Bretagna. Non da ultimo, la decisione di “dividere le appartenenze” può risultare paradossalmente favorevole all’integralismo, perché facilmente fa scivolare nell’arroccamento di ciascuno sulla propria identità religiosa. Se è giusto e persino opportuno favorire nei giovani l’approfondimento di temi religiosi, che sono sempre un valore quando sono veri, perché spingono l’uomo a misurarsi tanto col suo limite quanto col suo dovere di solidarietà verso il prossimo, quando questi debbano essere compiutamente e legittimamente “confessionali” (cioè legati all’adesione ad una religione strutturata) sarebbe bene restassero nell’ambito delle scelte “personali” di individui e famiglie, nei riguardi delle quali lo Stato esprime rispetto, ma resta estraneo. Ma allora a chi toccherà il compito di insegnare ai giovani quella cultura religiosa di base che è pure necessaria per capire la cultura del nostro passato? Come si potrà leggere Dante senza conoscere almeno le basi della cultura cristiana? Ma come più in generale si potrà capire il linguaggio sino a ieri comune senza queste nozioni? Oggi quando i giovani leggono della pazienza di Giobbe, della saggezza di Salomone, sentono rinviare come esempio storico al rimpianto per le cipolle d’Egitto o vedono definito come “una geremiade” un certo testo, persino quando si sentono ripetere il “date a Cesare quel che è di Cesare”, o vedono definita una donna come una “Maddalena”, non hanno quasi sempre la più pallida idea a cosa ci si riferisca. Questo significa che è necessario avere un insegnamento confessionale del cristianesimo? Ci permettiamo di dubitarne, perché apparteniamo ad una generazione abbastanza matura per avere studiato la cultura classica, inclusa la religione dei greci e dei latini (senza la cui conoscenza molti loro testi sono incomprensibili), avendo queste nozioni, come è ovvio, da persone del tutto estranee alle credenze di quelle religioni. La soluzione però di affidare puramente e semplicemente l’insegnamento della religione a professori “laici” senza alcun rapporto con il retroterra delle comunità religiose qualche problema lo presenta. A parte la difficoltà di trovare questo tipo di insegnanti fuori di quei canali, si tratta di un tema delicato che non può essere lasciato all’improvvisazione (nella nostra scuola ce ne è già anche troppa) e che richiede un’attenzione fortissima verso tutte le sensibilità religiose, incluse quelle dei non credenti, che oggi percorrono la comunità giovanile. Insomma una formazione specifica che non è chiaro a chi potrebbe competere. Il problema si porrebbe inevitabilmente anche per il caso delle ore di religione islamica: trovare insegnanti preparati in materia che possano coprire l’intera domanda nazionale e farlo a prescindere dal rapporto con le istituzioni, piuttosto deboli, di quella comunità religiosa non sarebbe cosa semplice. Ed affidarsi ad insegnanti improvvisati di religione islamica potrebbe aprire conflitti generazionali, specie in un’immigrazione che sconta spesso a livello familiare divari culturali notevolissimi fra genitori e figli, che non sarebbero esattamente un contributo alla pace sociale. Certamente in Italia non siamo in buone condizioni per affrontare con la necessaria freddezza e serenità un problema di queste dimensioni. La nostra tradizione di Paese che è stato per quasi tutto il periodo della sua unità sostanzialmente monoconfessionale (le enclave ebraiche e protestanti, che pure esistevano, erano di dimensioni ridotte per cui non hanno potuto porre veramente una questione di “parità”). Di conseguenza è andato bene quasi a tutti concedere alla Chiesa Cattolica il privilegio dell’insegnamento della “religione” a mezza via fra il confessionale e il culturale: un compito che è stato assolto in modi diversi, a volte molto bene, a volte con un’inclinazione all’indottrinamento di basso profilo.
Oggi siamo in una situazione nuova e una presa in carico responsabile
di questo tema delicato gioverà a tutti: alle religioni presenti sul
nostro territorio, che vogliano proporre la questione del rapporto
dell’uomo con il suo destino non puramente terreno; allo Stato che
deve proporsi percorsi di integrazione e di educazione alla
cittadinanza responsabile a cui può molto giovare una seria
presentazione delle riflessioni che offre l’autentico spirito
religioso. |