SCUOLA

Paghiamo gli alunni per le lezioni
così insegneremo loro ad odiare il lavoro

Luigi Ballerini, il Sussidiario 17.10.2009

Neanche a pagarli. L’acuto pezzo di Giovanni Cominelli prende proprio spunto da certe iniziative di “incentivazione” al profitto scolastico. Aiutiamoci a giudicare questa iniziativa spostando il focus su due realtà diverse dalla scuola: il campo della salute e quello della cosiddetta managerialità (ma, come tutte le “ità”, esisterà davvero?).

Per lavoro e per passione mi sono a lungo occupato di compliance, termine tecnico che in medicina significa solamente il fatto che i pazienti devono prendere le medicine prescritte o compiere certi gesti di terapia (come iniettarsi l’insulina per i pazienti diabetici o fare certi esami frequenti per i pazienti scoagulati). Il tasso di compliance è solitamente molto basso per le malattie croniche e questo accade in tutto il mondo, qui non si possono scomodare le differenze cultuali. Come dire che magari ci ricordiamo anche di prendere l’antibiotico per qualche giorno di seguito, ma quando le cure diventano continue dopo un po’ compare una “involontaria” dimenticanza, non si fanno più le terapie o le manovre prescritte; insomma ci si adatta o aggiusta il proprio regime terapeutico e spesso in modo sconveniente.

Ecco allora medici e infermieri che per cercare di aumentare la compliance se ne inventano di tutte. Ho studiato a lungo i pazienti in dialisi (che devono fare la seduta tre volte la settimana con molte restrizioni sul consumo di cibo e acqua) e ho assistito anche al tentativo di pagare i pazienti. Esiste un interessante esperimento per cui venivano dati dieci dollari a seduta a pazienti più bravi, quelli che arrivavano in seduta con certi parametri nella norma (a scuola diremmo “preparati”). Ecco neanche a pagarli diventavano complianti: questo stratagemma funzionava un po’ per i primissimi tempi, ma poi perdeva efficacia con ritorno alle stesse abitudini di partenza.

Ma lo vediamo anche noi, coi nostri bambini. Quella che chiamo la strategia dell’ovetto non funziona. «Se fai il bravo poi ti do l’ovetto Kinder». Sappiamo bene che presto arriveremo a un punto in cui l’arguto bambino ci dirà: «prima mi dai l’ovetto, poi faccio il bravo».

I manager. Chi si occupa di motivazione nelle aziende ha da tempo scoperto che il puro incentivo economico è solo una e non la più efficace delle forme di “rewarding”, di premio del lavoratore che gli dia la soddisfazione necessaria per continuare a lavorare, e bene, nello stesso posto. L’attenzione si è da tempo spostata sulle condizioni del lavoro, sul livello di comunicazione interna, sulla possibilità di vivere con creatività il loro ruolo. Tutte situazioni efficaci tanto quanto, se non più di un bonus da tremila euro.

Questo accade perché parliamo appunto di strategie, comportamentali. E con le strategie di solito si fa la guerra, non si compone la pace necessaria al lavoro.

Una paziente che vedo in studio continua a parlarmi di come nell’educazione del figlio usi il “rinforzo positivo”. Nome sostenuto, per la banale strategia dell’ovetto: se fai bene ti do un premio. Le ho fatto notare che fa lo stesso con i suoi cani di cui è grande appassionata. Non siamo più nel campo dell’educazione, ma dell’addestramento. Poi lo chiamiamo in inglese – training – così ci fa meno impressione, ci suona meno da animali.

Siccome invece siamo uomini, la questione sta tutta nella soddisfazione e soprattutto nel luogo in cui risiede tale soddisfazione. Le strategie appena viste hanno un punto in comune, e malvagio: pongono la soddisfazione al di fuori del lavoro, un di più esterno che interviene ad ap-pagare la nostra noia e la nostra delusione. Non è così che si lavora, che si studia, che si ama.

Trovo che meglio di chiunque altro, in letteratura, l’abbia comunicato Bruce Marshall nel suo “A ogni uomo un soldo”, a proposito del lavoratore dell’undicesima ora.

«Il treno proseguiva la sua corsa rumorosa lungo la galleria, ma Gaston non si accorgeva delle stazioni, perché stava pensando ai misteri del Signore e riflettendo che lui li capiva in modo molto imperfetto. Uno, però, gli pareva di cominciare a capirlo, e cioè perché tutti gli operai della vigna ricevevano un denaro, sia che avessero portato il peso della giornata e del caldo oppure no. Pensava che la ragione era questa: che tanta parte del lavoro era ricompensa a se stessa, come tanta parte del mondo era castigo a se stesso. E a un tratto Gaston si rese conto che lui, da prete, era stato molto felice».

La soddisfazione è già frutto del lavoro, indicare una strada che la ponga altrove è infilare in un vicolo cieco i nostri ragazzi. Non credo qualcuno sia davvero stato promosso per la promessa di un motorino o – peggio – per la minaccia della sua privazione.

Chi studia, si applica, sta bene in classe con gli adulti e coi compagni ha già il suo premio. Non bisogna mai trascurare di sottolinearlo. E soprattutto non dobbiamo smettere di pensarlo possibile per noi, adulti.

Pochi giorni fa un ragazzo che mi viene a trovare in studio mi ha sorpreso dicendomi: «mi sono accorto che gli sfigati eravamo noi, non loro». E si riferiva alla sua banda alternativa e nullafacente; inconcludente quanto a metodo ed esito.

Anche lui ha scoperto a suo modo che conviene entrare in vigna alla prima ora. Al suono della campanella.