Chi prenderà le redini di tante aziende italiane, visto che i figli sfuggono?
Succede alle piccole imprese. E nel Nordest è un'emergenza sociale.

Generazione X, a Vicenza
una scuola insegna ai genitori

Inchiesta del "Venerdì": i corsi si tengono in tutta Italia

Paolo Casicci, la Repubblica 15.10.2009

Un imprenditore medio, che ha tirato su il primo capannone negli anni Settanta, avvia una nuova fabbrica in Cina e chiede al figlio, unico erede, di andarla a gestire. Il rampollo, che ha studiato in America e parla quattro lingue, parte per Shanghai, ma sei mesi dopo si fa vivo con una cartolina da Sydney: "Ciao a tutti, mi sono innamorato di un'australiana e ora vivo qui. Ci vediamo a Natale. Forse". Risultato: un investimento in fumo.

Prendete il problema di questo imprenditore e moltiplicatelo per le centinaia di migliaia di piccole e medie imprese italiane: quella del passaggio di generazione è una questione nazionale. In un Paese dove la stragrande maggioranza delle aziende ha carattere familiare, il tinello è il luogo dove si bruciano fatturati e patrimoni a sei zeri. Ogni anno, secondo le stime, i conflitti tra imprenditori ed eredi designati fanno "ballare" intorno ai seicentomila posti di lavoro. Non solo: le banche tendono a ridurre il credito all'azienda di un patron già anziano che non sappia a chi cederla. È come se un'altra crisi, sottotraccia e forse ineluttabile, si aggiungesse a quelle cicliche.

Secondo i dati più recenti, elaborati da Sergio Paternostro dell'Università di Siena, nei prossimi dieci anni il 40 per cento delle aziende affronterà un ricambio generazionale. Il 68 per cento degli imprenditori vorrebbe passare la mano a un figlio, ma otto su dieci giudicano questo passaggio "difficile" o "impossibile": a ragione, visto che in media solo il 24 per cento delle imprese sopravvive al fondatore e appena il 14 arriva alla terza generazione. È una legge non scritta, ma ferrea: "Il nonno è imprenditore, il figlio ingegnere e il nipote poeta" spiega Paternostro.

La zona in cui per prima s'è manifestato il problema è stato il Nordest. Nella terra dei distretti e delle aziende "coriandolo", la domanda "a chi lascerò" è quasi un'ossessione. La risposta è stata una terapia d'urto: se il vero problema è il conflitto generazionale, si sono detti alla Confartigianato di Vicenza, è da lì che bisogna partire. Così, proprio a Vicenza sono nate le prime scuole - oggi sono trentadue, da Milano a Isernia - per genitori e figli. Luoghi dove esperti psicologi, sociologi e psicanalisti insegnano ai genitori come recuperare il rapporto in famiglia. "I figli del benessere ritengono che si può fare anche il dipendente, senza faticare troppo" spiega Sandra Fontana della Confartigianato. "La nostra non è una scuola tradizionale, ma un luogo dove confrontarsi senza inibizioni confondendosi in mezzo agli altri". Iniziative simili stanno nascendo dal Friuli alla Sicilia alla Lombardia (dove il mancato passaggio generazionale è la seconda causa di mortalità aziendale: tra il 2003 e il 2004 hanno chiuso cinquemila imprese). A Roma, il Progetto Epigono rivela che solo il 21 per cento dei figli è disponibile a ereditare l'azienda di famiglia e molti solo per mancanza di alternative. Oltre alle scuole, esistono i focus group delle associazioni degli industriali e progetti europei di monitoraggio come quello di Eurochambres: su 890 casi di successione esaminati, 207 sono italiani.

Nel 2007, l'Assindustria di Vicenza ha chiuso in una stanza 660 imprenditori costringendoli a discutere del tema della successione. È stato come infrangere un tabù: "Nessun imprenditore, fino a qualche anno fa, riconosceva il problema della continuità d'impresa in quanto tale: se un'azienda chiudeva perché il titolare non trovava un erede, la motivazione ufficiale era l'anzianità del proprietario o i suoi problemi di salute" spiega Toni Brunello dello studio CentroVeneto. Brunello è un consulente di nuova generazione: il suo è un approccio psicologo (è autore di un manuale sulla continuità d'impresa utilizzato in tutta Europa), oltre che finanziario e giuridico. "Avvocati e commercialisti servono più che altro a dividere il patrimonio in quote" dice Massimo Calearo, 54 anni, l'ex falco della Confindustria, ora deputato pd. Imprenditore di seconda generazione (fu suo padre a fondare il gruppo diventato leader nella componentistica per auto), Calearo è alle prese con il passaggio alla terza. "Capire se in famiglia c'è qualcuno che possa ereditare l'azienda, e chi sia, è diverso dal passare la roba: servono consulenti per andare oltre gli aspetti tecnici".

Gli esperti chiamano patrimonio etico tutto ciò che in tema di successione aziendale va oltre le questioni strettamente giuridiche. A Palermo si insegna a tramandarlo nella business school Isida: "Abbiamo organizzato tre seminari negli ultimi due anni, con imprenditori di prima, seconda e terza generazione" dice il direttore di Isida Salvatore La Rosa: "Qui il problema della successione è molto sentito, perché, se al Nord un'impresa senza erede viene venduta, da noi il più delle volte muore".

Un'indagine dell'Università Federico II di Napoli rivela poi che per gli imprenditori del Sud è scontato che l'azienda sia ereditata dai figli: solo l'1,5 per cento del campione si è posto il problema della continuità. Non solo. Un imprenditore su due non ha stimato il patrimonio aziendale (uno su quattro non ne ha neanche una conoscenza orientativa) e, di questi, il 33 per cento non intende farlo: "Come se dare un valore fosse il primo passo verso la vendita, che è un'ipotesi inconcepibile" dice Donata Mussolino, del dipartimento di Economia aziendale.

Per gli economisti, un'azienda che sopravvive è preferibile a una di nuova fondazione: un trasferimento riuscito conserva in media cinque posti di lavoro, un'impresa che nasce ne genera due, calcola uno studio di Fondazione Nordest e Unicredit. Ma si può, nel nome del Pil, ingabbiare una generazione? No, e per fortuna nessuno pensa di farlo. Del resto, più di un'indagine (tra le ultime, quella presentata una settimana fa dalla fondazione Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo) bolla l'Italia come un Paese "bloccato", dove i figli ereditano il mestiere dai padri per mancanza di alternative, per poi scoprire di guadagnare meno e vivere peggio.

"Qui non si tratta di inchiodare i figli al mestiere dei genitori" spiega il direttore dell'Associazione delle aziende di famiglia Giuseppe Attanzio, "ma di trovare la soluzione per far sopravvivere le aziende e assicurare loro il futuro più florido". E poi, i figli che non vogliono ereditare sono solo un aspetto della questione. "L'altro" spiega Calearo "è quello dei padri che non vogliono mollare le redini e degli eredi, più o meno capaci, che chiedono spazio. Per me non è stato un passaggio traumatico, sapevo che avrei ereditato l'azienda solo se avessi voluto: "Se non sai che fartene della fabbrica, faccio una cooperativa con gli operai" diceva mio padre. E io oggi lo dico ai miei figli". Su tre, solo uno, il maggiore, di 27 anni, ha fatto intendere che vuole ereditare: "Eugenio lavora al fianco dell'amministratore delegato, che è un esterno, e impara da lui. Al sabato andiamo a caccia insieme, ma guai se provassi a insegnargli qualcosa".

Il caso di Calearo è però un'eccezione. Spiega Guido Corbetta, docente di Strategia delle aziende familiari: "Ci sono ancora troppe resistenze a fare ricorso a manager esterni, mantenendo la proprietà in famiglia. Eppure, i dati confermano che se al fondatore succede un manager, l'impatto negativo che ogni successione porta con sé, è minore. Un manager vuole dimostrare quanto vale e si circonda di persone di fiducia senza preoccuparsi di dover riservare un posto a chi non lo merita".

Ma anche un'azienda affidata a un manager può entrare in crisi, se gli eredi, in consiglio d'amministrazione, litigano sulle decisioni cruciali. Ecco perché l'Associazione delle aziende familiari proporrà un disegno di legge per la riduzione della legittima, la quota minima di patrimonio da riservare agli eredi. Un modo per permettere al padre di privilegiare un solo figlio e di escludere gli altri, meno capaci, dalla successione, ovviamente garantendo loro altri rami del patrimonio. E se la successione non è assicurata, le liti sì.