L'Europa: niente crocefisso nelle aule
Sentenza della Corte di Strasburgo: La Stampa 3.11.2009
ROMA Il governo italiano presentato ricorso contro la sentenza. «Nessuno, nemmeno qualche corte europea ideologizzata, riuscirà a cancellare la nostra identità», spiega il ministro dell’Istruzione Gelmini secondo cui «la presenza del crocifisso in classe non significa adesione al Cattolicesimo ma è un simbolo della nostra tradizione». Sulla stessa linea anche la Carfagna: «Il governo ricorrerà contro la sentenza della Corte europea perchè il crocefisso non è soltanto un simbolo religioso, ma testimonia una tradizione millenaria, dei valori condivisi dall`intera società italiana». La sentenza divide il mondo politico. Alla grande maggioranza di chi dissente dalla decisione europea, si contrappone chi difende il valore di laicità della sentenza. Dal Pdl Stefano De Lillo tuona contro «una sentenza assurda». Sulla stessa lunghezza d’onda Mario Baccini, leader dei Cristiano popolari del Pdl: «Il crocifisso rappresenta valori universalmente riconosciuti. Sembra che la deriva pagana della Corte europea sia evidente. Si confonde una sana cultura laica con il laicismo» e anche Margherita Boniver, presidente della commissione parlamentare Schengen, osserva: «È assolutamente incomprensibile la decisione, va tutto contro l’interesse del continente europeo, che così rinnega le sue radici religiose e culturali». Diverso il giudizio di Vincenzo Vita (Pd), che parla di «una ragionevole posizione, che non delegittima la religione cattolica, ma che la riconsegna a una spiritualità che non necessariamente ha bisogno di simboli esibiti in luoghi non adibiti al culto. Le religioni, nel villaggio globale, hanno una pluralità che merita rispetto». Ma nello stesso centrosinistra Ermete Realacci (Pd) rileva: «Nel nostro paese non si tratta di aggiungere un simbolo non presente, con una scelta che potrebbe apparire di sopraffazione di altre culture, ma di mantenere un tratto di identità radicato e costitutivo della nostra cultura». Per Silvana Mura (Idv): «L’offesa nei confronti di studenti di religioni diverse da quella cattolica non è rappresentata tanto da un crocifisso appeso al muro, ma piuttosto da programmi che non si pongano il problema di conciliare le caratteristiche fondamentali che l’insegnamento di stato deve avere con la nuova realtà multiculturale e multietnica». Dalla Lega Nord interviene con forza la vicepresidente del Senato, Rosi Mauro: «Se l’Europa considera il crocifisso, simbolo per eccellenza della sua storia e della sua tradizione, discriminatorio o irrispettoso, significa che vuole discriminare e mancare di rispetto proprio a se stessa. Serve un’Europa diversa, che si apre agli altri proponendosi però come portatrice di una propria identità». Concorda un altro esponente del Carroccio, Massimo Polledri che sottolinea: «La sentenza è sintomo di una dittatura del relativismo, è un attentato alla libertà religiosa e si scontra con quella che è la legislazione vigente nel nostro paese, bsognerà discuterne al più presto anche in sede parlamentare». Isabella Bertolini (Pdl) afferma: «Da Strasburgo arriva un pronunciamento simbolo della deriva laicista e nichilista che nega le radici culturali e valoriali della nostra società. Il crocifisso deve restare nelle aule scolastiche e negli uffici pubblici come l’emblema dei valori civili che hanno una origine religiosa, ma che esprimono la laicità stessa dell’ordinamento dello Stato». Anche tra i sindacati italiani della scuola prevale scetticismo nei confronti della pronuncia di Strasburgo: giudizio decisamente positivo solo dalla Flc Cgil, mentre Cisl scuola e Snals scuola criticano la sentenza; posizione neutra da Uil scuola e Gilda. Il caso riguarda un ricorso di una cittadina italiana, Soile Lautsi,residente ad Abano Terme, che aveva protestato, durante l’anno scolastico 2001-2002, per la presenza del crocifisso nelle classi dei suoi figli, che considerava contraria al principio di laicità dello Stato. Nel maggio 2002, la direzione della scuola aveva deciso di lasciare il crocifisso nelle classi, e in questo senso si era espressa più tardi una circolare del Ministero della Pubblica istruzione indirizzata a tutti i direttori delle scuole pubbliche. Il verdetto della Corte di Strasburgo, composta di sette giudici, è stato unanime. Le sue motivazioni mettono in causa non solo le decisioni del governo italiano, ma anche le sentenze del Tar del Veneto e del Consiglio di Stato, che avevano respinto i ricorsi della signora Lautsi rispettivamente il 17 marzo 2005 e il 13 febbraio 2006. La Corte costituzionale italiana, investita del caso, si era invece dichiarata incompetente il 15 dicembre 2004, considerando che le disposizioni oggetto della controversia legale erano di ordine regolamentare e non legislativo. La signora Lautsi aveva iniziato la sua azione legale con un ricorso al Tar il 23 luglio 2002, basandosi su una sentenza del 2000 della Corte di cassazione, che aveva giudicato la presenza del crocifisso negli uffici di voto contraria al principio di laicità dello Stato. Dopo la circolare che imponeva alle scuole pubbliche di lasciare i crocifissi nelle classi, il Ministero della Pubblica istruzione si era costituito parte civile contro la ricorrente. Davanti alla Corte costituizionale, il governo aveva sostenuto che la presenza del crocifisso nelle scuole era naturale, trattandosi non solo di un simbolo religioso, ma anche di un simbolo dello Stato italiano, essendo la ’bandierà della sola Chiesa nominata nella Costituzione. Il Tar del Veneto, da parte sua, aveva giudicato il crocifisso simbolo della storia e della cultura italiana, e di conseguenza dell’identità italiana, spingendosi a definirlo anche simbolo dei princìpi di uguaglianza, libertà e tolleranza, nonché della laicità dello Stato. Anche il Consiglio di Stato aveva poi argomentato che la croce è diventata uno dei valori laici della Costituzione italiana, e rappresenta i valori della vita civile. «La presenza del crocifisso, che è impossibile non notare nelle aule scolastiche, può essere facilmente interpretata dagli studenti di tutte le età come un simbolo religioso», osservano i giudici nella loro motivazione, secondo la sintesi riportata dall’Ufficio stampa della Corte. Gli alunni, così «sentiranno di essere educati in un ambiente scolastico segnato da una determinata religione. Questo potrebbe essere incoraggiante per degli alunni religiosi, ma potrebbe anche perturbare gli alunni di altre religioni o atei, in partico9lare se appartengono a delle minoranze religiose». La «libertà di non credere in nussuna religione», continua la motivazione della sentenza, «merita una protezione particolare se è lo Stato che esprime una fede e se la persona è posta in una situazione a cui non può sottrarsi». Lo Stato, dunque, «deve astenersi dall’imporre delle fedi nei luoghi in cui le persone sono da esso dipendenti», ed è tenuto, in particolare, «alla neutralità confessionale nel quadro dell’educazione pubblica, in cui è richiesta la presenza ai corsi, indipendentemente dalla religione, e che deve cercare di inculcare un pensiero critico agli alunni». Ancora, la Corte «non vede come l’esposizione, nelle classi delle scuole pubbliche, di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo (religione maggioritaria in Italia)possa servire al pluralismo educativo che è essenziale per la conservazione di una "società democratica", così come la concepisce la Convenzione (europea dei diritti del’uomo, ndr), pluralismo che è riconosciuto dalla Corte costituzionale italiana». «L’esposizione obbligatoria di un simbolo di una determinata confessione nell’esercizio della funzione pubblica, e in particolare nelle aule di lezione, limita dunque il diritto dei genitori di educare i loro figli secondo le proprie convinzioni, nonché il diritto dei bambini a scuola di credere o non credere», conclude la Corte, constatando la violazione dell’articolo 9 della Convenzione e dell’articolo 2 del Protocollo n.1. Entro tre mesi è possibile ricorrere in appello contro la sentenza, chiedendo il rinvio del caso davanti alla "Grande Chambre", composta di 17 membri. La richiesta d’appello, tuttavia, viene prima esaminata da un collegio di cinque giudici, che può respingerla se considera che il caso non sollevi questioni gravi relative all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo o dei suoi protocolli, oppure una questione di carattere generale. |