SCUOLA

Maturità: un’ipotesi per superare
la “fabbrica dei diplomi”

Giovanni Cominelli, il Sussidiario 26.3.2009

L’esame di maturità si è trasformato in una generale sanatoria e la scuola di stato in un gigantesco diplomificio. Tutti maturi! E con questa gioiosa e infondata consapevolezza i ragazzi entrano nel labirinto dei corsi universitari. E là, al termine del primo anno, si è già persa più della metà. Arriverà a laurearsi, mediamente, a 27 anni un 20-30%. Tutti gli altri? Dispersi! Su 100 ragazzi che entrano in prima elementare esce laureato dall’Università il 12%: nel sistema entra un fiume, esce un rigagnolo. Sotto la parola “maturo” si trova sempre meno di conoscenze, abilità, competenze. Pertanto ciò che torna a contare, quando si tratti di entrare nella vita attiva, non è il capitale umano, non il merito, bensì il capitale sociale e relazionale. Sostanzialmente il censo, non il merito. E’ una drammatico esito controfinale per un sistema di istruzione che si era annunciato universalistico e socialmente giusto, per tutti e non per pochi.

Ora, la prima forma elementare di giustizia consiste nel rendere pieno riconoscimento a ciascuno per ciò che è e vale. Il mancato riconoscimento genera risentimento, conflitto, depressione, fallimento. Perciò tornare ad esami seri è un imperativo sociale e morale, un servizio educativo ai ragazzi, un contributo decisivo a costruire la loro immagine di sé e la loro presenza nel mondo. Dove per “esame serio e severo” si intende “una macchina della verità” capace di segnalare al ragazzo il suo livello reale di conoscenze, abilità, competenze. Costruirla è complicato. Nutre delle illusioni ideologiche chi pensa che basti qualche colpo di cacciavite (la Bozza di Regolamento Gelmini, art. 6, comma 1 stabilisce che per essere ammessi all’esame di maturità occorre avere la sufficienza in tutte le materie: l’effetto non atteso, ma prevedibile, sarà l’estensione del 6 politico!) al motore fin qui ereditato da una sfilza di Ministri (Gentile, Fedele, Bottai, Gonella, Sullo, Berlinguer, Moratti, Fioroni) per farlo ripartire. Il modello gentiliano, durato con alti e bassi fino alla riforma Sullo del 1969, era fondato su due pilastri: una selezione durissima in entrata fin dalla scuola elementare e una selezione molto severa in uscita all’esame di maturità. Il primo esame di maturità nel 1924 respinse il 75% dei candidati (ma già Gonella nel 1946 affermava che il monopolio statale del fascismo aveva ridotto la scuola a “fabbrica di diplomi”!). Fino al 1969 veniva respinto mediamente il 30%. Dopo il 1970 i respinti scenderanno al di sotto del 10%. Nel 2008 cadono al 2,7%. Dopo la riforma della Scuola media unica nel 1962 e Lettera ad una professoressa del 1967 il primo pilastro della selezione di percorso si sbriciolò. Perciò anche il secondo (quello dell’esame duramente selettivo) cedette.

Sembra pertanto proporsi il dilemma: o il ritorno al “metodo Gentile” o il collasso. Tutto ciò sullo sfondo della trasformazione profonda del ruolo dei sistemi educativi nella terza rivoluzione industriale e nella società globalizzata.

Supposto che la ricostruzione dei due pilastri dell’esame gentiliano (selezione in ingresso, selezione in uscita) sia possibile, esiste solo la via gentiliana alla serietà, al riconoscimento del merito personale, alla giustizia educativa?

Qui si avanza un’altra ipotesi.

In primo luogo il servizio educativo deve essere accessibile a tutti in modo permanente. Esso deve offrire le competenze-chiave e le competenze vocazionali necessarie a stare nel mondo e nelle professioni. Gli standard di competenze e gli indicatori di misurazione devono essere elaborati dalla Repubblica, magari mediante un’Authority del curriculum. Dentro questo vincolo probabilistico e in divenire le scuole autonome costruiscono i piani di studio e i percorsi dei ragazzi. Questi percorsi non sono necessariamente organizzati per classi di età: non si tratta di essere promossi o no da una classe di età all’altra, ma di seguire il proprio piano studi. Entro i 18 anni i ragazzi escono dal sistema obbligatorio, ciascuno con livelli diversi, che devono essere rigorosamente certificati nelle forme tecnicamente più diverse dalle scuole. Naturalmente c’è un esame di valutazione esterna severa e con conseguenze anche per le scuole: in che misura hanno mantenuto le promesse fatte alle famiglie che hanno portato lì i propri figli?

Insomma: la scuola “non seleziona nessuno”. Fa solo due operazioni: fornisce competenze, certifica competenze, sulla base di standard e indicatori nazionali. Dichiara ai ragazzi, alle loro famiglie e alla società che li attende (Università o lavoro) che cosa hanno effettivamente nello zaino. In questa prospettiva l’esame di “maturità” così come oggi è condotto non serve a nulla. Contano la certificazione reale e il portfolio effettivamente costruito delle competenze acquisite: dalla Germania alla Svezia alla Gran Bretagna conta quello che hai nello zaino! In che cosa consistono allora la severità, la serietà e il merito, di cui si fa molta propaganda ideologica e nessun esercizio reale? Semplicemente nel dire la verità nuda e cruda ai ragazzi e alle famiglie sui livelli effettivamente raggiunti. Semplicemente nel mettere i ragazzi e le loro famiglie di fronte alla loro libertà e responsabilità. E la famosa selezione? Nei test di ingresso delle facoltà universitarie e nei colloqui per le professioni. Con una domanda maliziosa finale: hanno voglia le Università di accertare la coerenza con i propri curricula o preferiscono avere migliaia di iscritti a perdere, perché il numero fa la forza e le cattedre? E nelle professioni contano le competenze o la rete delle relazioni di potere e di parentela? Dietro la domanda sta forte il sospetto che il facilismo e il lassismo non siano solo caratteristiche del sistema educativo, contro cui ci si scaglia, ma tratti (im)morali profondi della società italiana.