Il 18 aprile si ricicla in febbraio.

Una gita scolastica nel paradigma del revisionismo

Stefano Borgarelli, 9.3.2009

Il riciclaggio risulta ecologicamente corretto. Usando la tecnologia in modo virtuoso, chi ricicla fa nascere fiori – come fa la Natura – dal letame. Per il bene comune. La materia che costituisce i fatti storici, al contrario, è riciclata spesso con fini poco virtuosi. L’uso pubblico della storia fa uscire i fatti dal solco fisiologico della normale revisione. Li immette nel circuito dell’ideologia, li piega al gioco delle parti. Alla fine d’ogni nuovo ciclo (ricorsivo), il revisionismo fazioso non produce la sempre penultima (come dev’essere) parola dello storico, ma l’ultima parola del politico (che ricicla interpretazioni vecchie con appena uno strato di vernice sopra).

Il nostro tempo smemorato affida i suoi dati alle protesi tecnologiche, all’informatica, ma sembra ossessionato (per compensazione?) dalla memoria. Già Le Goff, noto storico medievista, aveva indicato nella pratica collettiva ufficiale delle celebrazioni uno svuotamento dei fatti storici. Congelati una volta per tutte nella dimensione del monumento, i documenti sono sottratti allo spazio dell’interrogazione critica, della revisione fisiologica (propria della storiografia). Più di recente, con apprezzabile coraggio intellettuale, uno storico sociale delle idee, David Bidussa, ha messo in questione un evento ormai consolidato tra le pratiche celebrative come il Giorno della Memoria, chiedendo con brutale franchezza se “è parte di un calendario civico collettivo o fa solo parte del calendario scolastico? È una data come il 25 aprile, il 4 novembre? Oppure come il 2 giugno, la ricorrenza forse meno avvertita nella coscienza pubblica? Diversamente: ci riguarda tutti o no? Evoca o no qualcosa che riguarda la nostra formazione civile?”. Più sottile, più strisciante (perciò stesso più pericolosa), meno riconoscibile del revisionismo, la banalizzazione del fatto storico – proprio il più tragico – si consolida nel linguaggio collettivo. Più la Shoah si “ricicla” ritualmente, meno se ne avverte la specificità storica, che sola può sbarrare il passo a trasposizioni analogiche (cioè ideologiche) che depotenzino la tragedia in quanto factum, la usino come strumento connotativo, disponibile ed equivoco: «[…] se diventa pratica comune definire con la parola “olocausto” qualsiasi atto che colpisce la vita; se l’aborto o la distruzione di embrioni vengono intesi come l’equivalente della Shoah; se Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci viene assimilato a Se questo è un uomo di Primo Levi, allora la banalizzazione ha vinto sotto i panni della falsa assolutizzazione. […] Per questo non solo non basta dire “Mai più!”. Anzi, quell’invocazione rischia di essere l’aiuto più consistente ed efficace alla banalizzazione. La Shoah non riguarda solo la questione della morte, riguarda anche altre questioni relative ai comportamenti e ai valori che quei comportamenti esprimono e a cui alludono. Tutte cose molto solide e concrete sul piano della nostra quotidianità che costituiscono il cuore del Giorno della Memoria. Per questo è venuto il tempo di ripensarlo.» (D. Bidussa, Vuoti di memoria, Golem l’Indispensabile).

Un conto è comunque il depotenziamento del senso d’un fatto storico – che il suo riciclaggio rituale gli fa correre –, altro conto è l’uso più o meno esplicitamente ideologico della storia che oggi viene fatto, talvolta così a mani basse da farci toccare il grado zero della mera propaganda. Un episodio recente ci sembra davvero paradigmatico. «Nella primavera del 1945 gli uomini di Tito e quelli di Togliatti sono sulle stesse identiche posizioni»: così recita un passaggio del libretto distribuito sabato 21 febbraio 2009 ai 196 ragazzi partecipanti al «viaggio della memoria nella civiltà istriano-dalmata», il primo promosso dal Campidoglio sui luoghi degli eccidi «rossi», sulla falsariga delle ormai tradizionali visite delle scuole ad Auschwitz. La sintesi lampante delle tesi di Paolo Sardos Albertini, presidente della Lega Nazionale di Trieste, sta nel disegno stampato sulla quarta di copertina: un corpo impalato su falce e martello, il filo spinato che trattiene braccia e gambe, esangui. Pescandolo al centro di documentazione di Basovizza (gestito dall'Associazione degli esuli triestini), l'assessorato alle Politiche educative del Comune di Roma aveva consegnato il libretto come “ricordo” ad allievi e docenti aderenti al progetto sulla memoria, ma è stato presto (e per fortuna) seppellito dalle polemiche: «Mi sono rifiutato di leggerlo», ha detto un liceale, «il viaggio è stato bello ma si è concluso con un colpo basso squallido». L’assessore alla Scuola, Laura Marsilio, s’è scusata: «L'opuscolo non faceva parte del materiale preparato dal Campidoglio, per un problema organizzativo non era pronto il libro che volevamo distribuire ai ragazzi, e così abbiamo dato questo che ci era stato proposto dalla Lega Nazionale» - che ha difeso d’ufficio l’ineguagliabile opera: «Il disegno con falce e martello era d'epoca, non ricordo se di Guareschi» ha spiegato il suo autore, Albertini, «e comunque il mio è un discorso storicamente motivato». Insoddisfatto, il primo cittadino di Roma annuncia che dall'anno prossimo la visita sarà preparata da un comitato scientifico.

Vicenda istruttiva. Non serve nemmeno leggere tra le righe. L’improvvisazione non è affatto priva di ratio. Aria, anzi bora (vista la meta di quei 196 studenti) di revisionismo tira senza soste. L’urgenza di propaganda è tale, che s’è messa in piedi una Gita del Ricordo (la legge n. 92 del 30 marzo 2004 riconosce la memoria degli infoibati nel Giorno del Ricordo, da celebrarsi ogni 10 febbraio), distribuendo in fretta e furia una paccottiglia che pare tolta di peso dai manifesti del 18 aprile 1948. L’istruzione (storica) era lo scopo manifesto, l’indottrinamento (ideologico) quello latente, il disegnino contro il fantasma (comunista) ne è stato il lapsus, l’atto freudianamente “mancato” – ma si dovrebbe dire meglio “dovuto”, in questo tempo poco innovativo (e molto nostrano, molto all’ingrosso) di riciclaggio ideologico.