Scuola, quei professori con la valigia
da
Panorama,
9.3.2009
Ogni anno nelle nostre scuole il 27 per cento degli insegnanti è
“nuovo” rispetto all’anno precedente. Ciò significa che ogni anno un
docente su quattro cambia istituto. Fenomeno imponente che, facendo
due conti, come li ha fatti Ciccio Scrima, segretario nazionale
della Cisl scuola, significa: “Alla fine dell’anno scolastico
2008-09 la mobilità è stata di 92.737 docenti. Su 701.305 insegnanti
di ruolo significa il 12 per cento”. E sono state presentate 150
mila domande di trasferimento.
Insegnanti con la valigia, pendolari del sapere che vantano nella
loro carriera una media di almeno tre scuole cambiate. Racconta
Valeria Poggi, 36 anni nella scuola, da insegnante a vicepreside in
un istituto alle porte di Milano: “Fra nomine tardive, precari,
graduatorie incrociate, alla fine ci si capiva ben poco. La mobilità
dagli anni Ottanta è aumentata in modo vertiginoso e, di
conseguenza, sono aumentate le spese. Nella mia scuola avevamo una
persona che lavorava solo fra telefono e telegrammi per comunicare
gli spostamenti”.
Per circa il 14 per cento non si tratta di una scelta: sono
obbligati dal meccanismo delle graduatorie. “La nostra scuola è come
l’esercito, il sistema assegna gli insegnanti alle diverse scuole
per anzianità, non c’è l’elemento scelta. In più c’è l’aggravante
che nella scuola non esistono gradi. Tutti generali, o meglio tutti
caporali” ironizza
Andrea Gavosto, direttore della
Fondazione Giovanni
Agnelli che ha appena pubblicato lo
studio recente più completo sulla scuola (Rapporto sulla scuola
in Italia 2009,
Editori Laterza).
Un capitolo è dedicato agli insegnanti, perché, come ricordava uno
studio Ocse di qualche anno fa, “teachers matter”, gli insegnanti
contano. O almeno dovrebbero, certo è che macinano chilometri. Ai
globetrotter di ruolo vanno aggiunti precari e neoassunti, tutti
costretti a una girandola, come racconta Giovanni Turra, 36 anni,
insegnante di lettere in un liceo alle porte di Venezia: “Da
supplente, da 24 a 26 anni, ho cambiato sette scuole. Allora mi
sembrava anche divertente. Oggi ho colleghi che dopo 15 anni
continuano a spostarsi, in una sorta di schizofrenia che impedisce
di instaurare rapporti con gli allievi e i colleghi”. Turra oggi si
sente un privilegiato: insegna sotto casa, ma ha già la valigia
pronta: “Con la nuova riforma e la contrazione delle cattedre mi
aspetto il trasferimento”.
Gli spostamenti, secondo lo studio della Fondazione Agnelli, sono
per il 77,4 nell’ambito della stessa provincia, per il 14,4
nell’ambito dello stesso comune e solo il 4,4 per cento fra regioni
diverse. Ciò significa, come spiega Scrima, che per dieci anni ha
insegnato a Quarto Oggiaro (”Il cosiddetto Bronx milanese”) e poi è
tornato a casa in Sicilia, “un perverso gioco dell’oca al contrario.
L’insegnante che dal Nord vuole tornare a casa al Sud può impiegare
anche trent’anni”.
“Un turnover vorticoso, più è forte la mobilità, più è bassa la
qualità di apprendimento dei ragazzi” continua Gavosto. Dagli studi
Pisa (Programma per la valutazione internazionale dell’allievo)
emerge, sottolinea Stefano Molina, dirigente di ricerca della
fondazione torinese, “che uno dei fattori che spiegano il risultato
deludente degli alunni è il grado di mobilità che si è avuto in
quella scuola”
Ma perché questa giostra? “La carriera degli insegnanti è piatta,
con un solo passaggio decisivo: l’immissione a ruolo. Dopo, non
potendo aspirare all’aumento di merito, o alla promozione, si sogna
almeno di cambiare sede di lavoro. Magari per avvicinarsi a casa”
continua Molina. Non si stupisce Alessandro Cavalli, sociologo della
scuola (Gli
insegnanti nella scuola che cambia, Il Mulino 2000; la sua
prossima ricerca sarà pronta in autunno): “È così dal dopoguerra, è
uno degli aspetti della questione meridionale, della disoccupazione
dei laureati nel Sud. E la scuola resta la valvola di sicurezza
contro la disoccupazione intellettuale. Non credo esista un solo
insegnante in Italia che non abbia mai cambiato istituto”. I giovani
insegnanti meridionali lavorano in media a una distanza di oltre 400
chilometri dal luogo di nascita, distanza che negli anni riescono ad
accorciare fino a 150 chilometri. E nelle scuole del Nord oltre metà
dei docenti di 25-30 anni proviene dal Sud.
“Vanno via ma poi fanno di tutto per tornare a casa. Avuto il posto,
mettono in moto i meccanismi del sistema per potersi spostare. Con
effetti tutt’altro che positivi sull’insegnamento. Il senso di
appartenenza si indebolisce, si insegna a spezzoni, senza investire
nel rapporto con gli studenti, che diventa sempre più simile a una
prestazione. Come quando si va dal medico per una ricetta”. Racconta
Turra: “Ho una collega che insegna nove ore latino e greco al
classico, le altre nove invece in una scuola media in un altro
comune. Ha trent’anni e una strada in salita davanti”.
Il rischio è il “burn-out”, la caduta dell’identità, la liquefazione
del ruolo, ha spiegato
Giuseppe Favretto, docente di organizzazione del lavoro
all’Università di Verona nel suo Lo stress degli insegnanti, ricerca
su oltre 2 mila docenti del Veneto (in uscita per la Franco Angeli):
“Alcuni resistono e combattono, altri si fanno trascinare dalla
corrente. E sembra paradossale, ma sono i migliori: quelli che hanno
accettato di diventare dei perfetti funzionari asburgici”.
La Fondazione Agnelli lancia l’allarme e per la prima volta registra
da parte degli insegnanti la volontà di uscire dallo stritolamento
delle graduatorie e dai meccanismi da gosplan. “Non è un fenomeno
solo italiano” continua Gavosto “però mentre in altri paesi si cerca
di attenuare la pianificazione sovietica delle graduatorie, da noi
lo stesso sistema è accentuato”.
Deve cambiare il reclutamento e i primi a chiederlo sono gli
insegnanti, perché, come aggiunge Valeria Poggi, “oggi sembra di
assistere a una partita a scacchi dove le pedine vengono spostate a
caso e alla fine si perde sempre”.
Purtroppo di valigie il prossimo anno se ne faranno ancora molte.
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