La dismissione della scuola pubblica:
i Comuni non ci stanno
di Massimo Nutini, ScuolaOggi
17.3.2009
La crisi economica che sta attraversando il mondo e le misure che
gli Stati vanno adottando per fronteggiarla stanno producendo
effetti di grande rilievo nelle politiche della spesa pubblica del
nostro Paese. Tali politiche rimettono oggi in discussione
pesantemente il modello di welfare universale (diritti che
scaturiscono dalla cittadinanza e non dalla professione o dal
bisogno) e penalizzano in particolare le istituzioni più vicine ai
cittadini.
La necessità di reperire risorse per finanziare interventi
straordinari in diversi settori dell’economia si sommano, in
particolare per i Comuni, alla diminuzione dei trasferimenti statali
che, nella logica della graduale attuazione del federalismo sancito
dalla modifica al Titolo V della Costituzione, avrebbe dovuto essere
accompagnata da una redistribuzione delle entrate fiscali a favore
dei soggetti istituzionali interessati dal trasferimento di nuove
funzioni e compiti, e cioè le Regioni, le Province ed i Comuni.
Tale redistribuzione, il cosiddetto federalismo fiscale, non è
ancora avvenuta compiutamente mentre non sono poche le scelte
governative che hanno prodotto ulteriori diminuzioni delle entrate
degli enti locali. Prima tra tutte l’abolizione dell’ICI sulla prima
casa, tributo che era introitato direttamente dai Comuni e che
avrebbe dovuto essere compensato con trasferimenti statali la cui
entità effettiva si è poi rivelata inferiore di ben 800 milioni di
euro rispetto alle previsioni, a cui hanno fatto seguito i tagli al
fondo delle politiche sociali, la sopravvalutazione delle entrate
presunte dell’ICI ex-rurale e la cosiddetta riduzione dei costi
della politica, in relazione alla quale lo Stato ha operato
riduzioni di trasferimenti sovrastimando le possibili effettive
economie di bilancio.
Questa situazione ha determinato una rottura istituzionale senza
precedenti, che ha visto l’abbandono da parte dell’Anci
(Associazione Nazionale dei Comuni) di tutti i tavoli di
concertazione tra i vari livelli di governo, mentre molti Comuni
hanno scelto di non approvare i bilanci nei termini di legge e di
non rispettare il patto di stabilità interno.
Tutto questo, proprio mentre la crisi crea disoccupazione e nuove
povertà che comportano una moltiplicazione della domanda, rivolta ai
Comuni, che reclama sussidi e interventi che ampliano la spesa
sociale.
Il rischio di riduzione degli standard della scuola pubblica
Gli effetti della riduzione della spesa pubblica stanno coinvolgendo
pesantemente anche il sistema scolastico e non è un caso che la
norma di legge dalla quale ha origine la revisione in corso degli
attuali ordinamenti scolastici sia un articolo (il 64) di un decreto
legge (il 112/2008) volto a dettare disposizioni urgenti per
fronteggiare la crisi economica.
A ben vedere, rileggendo tale articolo, la disposizione più chiara
in esso contenuta è proprio quella del comma 6, il quale recita “...dall'attuazione
dei commi 1, 2, 3, e 4 del presente articolo, devono derivare per il
bilancio dello Stato economie lorde di spesa, non inferiori a 456
milioni di euro per l'anno 2009, a 1.650 milioni di euro per l'anno
2010, a 2.538 milioni di euro per l'anno 2011 e a 3.188 milioni di
euro a decorrere dall'anno 2012”.
I provvedimenti attuativi mantengono coerenza con tale disposizione
ed è grande il rischio che si vada verso un abbassamento degli
standard di funzionamento della scuola con serie ripercussioni sulla
qualità dei livelli di apprendimento dei ragazzi. È quasi certo che
già dal prossimo anno scolastico si avranno classi più affollate,
meno tempo scuola, meno insegnanti, meno finanziamenti per il
sistema dell’istruzione pubblica.
Non è un caso se lo stesso Presidente della Repubblica, in visita
all’Università di Perugia lo scorso 23 febbraio, ha sentito la
necessità di affermare che “la formazione e la ricerca sono leva
fondamentale per la crescita dell’economia. Mi auguro quindi che
siano maturi i tempi per ripensare e rivedere scelte di bilancio
improntate a tagli indiscriminati”.
In questo contesto, le scuole del primo ciclo (infanzia, primaria e
secondaria di primo grado), che rientrano nella competenza dei
Comuni, nonostante le tante dichiarazioni sulle necessità di
ripensare prioritariamente il secondo ciclo dell’istruzione, si
ritrovano, da alcune legislature, ad essere le prime (e le uniche)
sulle quali si operano “riforme” che incidono sull’ordinamento,
sull’età di ingresso degli alunni, sull’organizzazione didattica,
sull’assegnazione e l’utilizzazione dei docenti, sulla dimensione
delle classi, dei plessi e degli istituti, sull’organizzazione dei
servizi di supporto.
L’evoluzione delle competenze dei Comuni per la scuola e le
criticità storiche
L’incertezza che continua ad interessare l’ordinamento ed i modelli
organizzativi scolastici influisce negativamente anche sul rapporto
tra la scuola ed i Comuni, amplificando le difficoltà che derivano
dalla particolare situazione di carenza di risorse in cui versano
sia gli Istituti Autonomi sia gli Enti Locali.
Questi recenti elementi di criticità aggravano le condizioni di un
rapporto che è già reso oggettivamente difficile sia dalle diverse
dimensioni e potenzialità dei Comuni italiani sia dalla complessa e
stratificata normativa che stabilisce le competenze attribuite ai
differenti attori istituzionali del sistema scolastico.
Le disposizioni che regolano i rapporti tra la scuola e i Comuni
sono infatti il portato di tre periodi storici, che hanno prodotto
altrettanti filoni normativi e regolamentari che mantengono tuttora
una loro vigenza ed una loro produzione legislativa.
Questi tre filoni, che può essere utile ripercorrere velocemente,
possono essere denominati nell’ordine: funzioni serventi, assistenza
scolastica, pianificazione e programmazione del servizio
d’istruzione.
L’assegnazione delle funzioni serventi trova lontana origine nella
nascita stessa della scuola statale centralizzata, vista come
strumento della costruzione dell’unità nazionale (nella prima
alfabetizzazione), dell’educazione fascista (nel ventennio) e della
rinascita della democrazia (nel secondo dopoguerra). Tali funzioni
mantengono rigorosamente distanti dal governo della scuola le
autonomie territoriali alle quali assegnano il compito della
fornitura di locali idonei, della manutenzione ordinaria e
straordinaria, nonché delle “spese varie d’ ufficio e per
l'arredamento e di quelle per le utenze telefoniche ed elettriche,
per la provvista dell'acqua e del gas, per il riscaldamento ed ai
relativi impianti”.
L’attribuzione ai Comuni delle competenze relative ai servizi di
assistenza scolastica risulta più recente e il contesto di
riferimento è quello della nascita dell’ordinamento regionale e del
trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni attuato nel
1977. Tale intervento ha innovato per la prima volta in modo
incisivo l’assetto complessivo dei pubblici poteri, ampliando
l’ambito delle materie di competenza regionale ed assegnando alle
Province e ai Comuni alcune funzioni definite di interesse
esclusivamente locale. L’assistenza scolastica concerne “tutte le
strutture, i servizi e le attività destinate a facilitare mediante
erogazioni e provvidenze in denaro o mediante servizi individuali o
collettivi, a favore degli alunni di scuole statali e non statali,
anche se adulti, l’assolvimento dell’obbligo scolastico, nonché per
gli studenti capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi la
prosecuzione degli studi”. I servizi di assistenza scolastica sono
volti a favorire l’accesso e la frequenza del sistema d’istruzione.
Tra questi: il trasporto alunni, la refezione scolastica, la
fornitura dei libri di testo e altro materiale didattico
individuale, borse di studio, servizi per gli alunni disabili.
L’attribuzione alle Regioni, alle Province ed ai Comuni di più
complesse ed impegnative funzioni che, in aggiunta alle funzioni
serventi e a quelle dell’assistenza scolastica, pongono in capo a
tali enti compiti di pianificazione e programmazione dell’offerta
formativa e della rete scolastica, è avvenuta con la più recente e
innovativa regionalizzazione. In materia d’istruzione, compete oggi
ai Comuni e alle Province, in relazione agli ordini di scuola di
rispettiva competenza, l’istituzione, aggregazione, fusione e
soppressione di scuole; la pianificazione e programmazione della
rete delle istituzioni scolastiche; la pianificazione e
programmazione dell’uso degli edifici e delle attrezzature; i
servizi per alunni disabili; la costituzione, controlli e vigilanza
sugli organi collegiali della scuola a livello territoriale;
l’educazione degli adulti; l’orientamento scolastico e
professionale; la realizzazione delle pari opportunità; il supporto
alla continuità didattica verticale e orizzontale tra gradi e ordini
di scuola; interventi perequativi; prevenzione della dispersione
scolastica; educazione alla salute.
A tutto ciò si aggiunge, infine, una significativa e ulteriore
trasformazione del quadro normativo, compiuta con la legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha ulteriormente
alleggerito le competenze statali in materia d’istruzione,
riservando alla competenza esclusiva dello Stato solo le "... norme
generali sull’istruzione" e la "…determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali
che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" ed ha
affidato alla potestà legislativa concorrente la materia della "...istruzione,
salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche". Tutte le altre
funzioni sono di competenza esclusiva delle Regioni le quali
dovranno individuare il livello migliore di esercizio e decentrarle
a Comuni e Province sulla base del principio di sussidiarietà, salvo
che ne sia indispensabile l’esercizio unitario.
I compiti del Comune per la scuola, sono quindi destinati ad
ampliarsi ulteriormente e i Comuni italiani sono oggi, anche da
questo punto di vista, di fronte ad una sfida non facile da
sostenere.
Come si collocano i provvedimenti del ministro Gelmini?
Il sistema dell’istruzione e della formazione dovrebbe dunque essere
oggi un organismo comprendente più attori istituzionali, che
dovrebbe svilupparsi attorno ed assieme alle autonomie scolastiche,
cui è affidato il compito non facile di promuovere lo sviluppo di
ciascuno. attuando e declinando l’offerta sul territorio, garantendo
il rispetto di principi e livelli essenziali centralmente definiti
ed operando nell’ambito della programmazione di rete effettuata
dagli enti territoriali con il coinvolgimento delle scuole autonome
stesse.
Ma le norme adottate in questi ultimi mesi e quelle in via di
adozione, come si collocano in questo processo?
In realtà, nonostante che la lettura di dettaglio dei singoli
provvedimenti può distrarre dal senso principale della manovra in
atto nei confronti della scuola, pare si stia delineando una quarta
fase storica che si aggiunge a quelle che abbiamo precedentemente
identificato in modo sintetico. Dopo la statalizzazione, la
regionalizzazione amministrativa ed il federalismo scolastico… il
dato politico principale di questa nuova fase pare essere quello
della riduzione dell’intervento pubblico nel settore
dell’istruzione.
A tale politica è funzionale anche la temporanea riproposizione del
centralismo ministeriale che da un lato tende a sottrarre alle
Regioni la definizione degli organici (non solo non concertando con
loro la ripartizione tra le regioni ma anche mantenendo in capo agli
Uffici Scolastici Regionali l’assegnazione degli organici agli
istituti) e dall’altro tende a togliere ogni sostanziale autonomia
alla capacità di auto organizzazione delle Istituzioni scolastiche
autonome, adottando regolamenti che vanno a definire con minuzia
come organizzare ed utilizzare il personale.
E non è un caso che i provvedimenti originino da esigenze di
contenimento della spesa e stiano seguendo tipologie di percorsi che
permettono al Governo di adottare decreti d’urgenza proprio perché
collocati nell’ambito delle manovre finanziarie di riequilibrio
della spesa pubblica.
Questo “quarto periodo” è ancora in corso di formazione e non
possono essere dati per scontati gli esiti futuri. Ma, tra questi, è
possibile immaginare un peggioramento degli standard qualitativi
(che invece dovrebbero essere migliorati) ed una minore rispondenza
ai bisogni delle famiglie e dei ragazzi.
Fino a pochi hanno fa, in Italia, conoscevamo solo una minima fetta
di utenza che si rivolgeva alla scuola privata. Buona parte di
questa era concentrata sulla scuola dell’infanzia non statale che da
sempre garantisce una maggiore flessibilità di servizio e di orari.
Recentemente, in alcune città del nord, si verificano liste di
attesa alle scuole primarie private, che iniziano a rispondere alla
domanda di tempo pieno non soddisfatta dalla scuola pubblica e che
spesso… non vedono tra i loro alunni… gli stranieri…. i disabili…. e
così via.
Se questo è, come è possibile ipotizzare, uno degli sbocchi
possibili della situazione attuale, sarà bene che gli enti locali,
giustamente preoccupati dei costi che le riduzioni dell’intervento
statale potranno far ricadere su Comuni e Province, inizino a
chiedersi anche quali oneri, non solo finanziari, potranno ricadere
sulle comunità locali dal concretizzarsi di uno scenario come quello
ipotizzato.
La versione integrale del presente articolo
uscirà su “Rivista dell’istruzione”, n. 3, aprile-maggio 2009.