Strategia di Lisbona 2000/2010

di Francesco Butturini, Educazione & Scuola 1.5.2009

Le date

     Chi scrive questa serie di riflessioni sulla Strategia Lisbona 2000/2010, è al servizio della Scuola e delle sue istituzioni, non di questo o dei  precedenti ministri. Vive la vita della sua scuola quotidianamente e partecipa da anni ad alcuni dei processi ministeriali di ricerca e di studio per la formazione in servizio dei docenti e dei dirigenti come responsabile del progetto ministeriale “Didattica della comunicazione didattica” dedicato, in particolare, all’attuazione del Primo Asse del “Regolamento per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione”: Linguaggi, studiando con una rete di 85 scuole, di ogni ordine e grado, provenienti da tutte le regioni d’Italia, l’ambito disciplinare Linguaggi non Verbali e Multimediali .

     Con questa prima riflessione, credo opportuno partire da alcune date fondanti la Strategia; la prima è quella del “Trattato di Maastricht”, 7 febbraio 1992. Gli articoli 149  e 150 del Trattato sono dedicati all’istruzione e alla formazione negli stati dell’Unione.

     La seconda data è  quella della prima  riunione a Lisbona del consiglio e del parlamento europeo, 23, 24 marzo 2000. In quella riunione venne definito il programma integrato che sostiene la messa in opera della Strategia di Lisbona nel settore dell’istruzione e della formazione. Le riunioni si sono susseguite nel tempo. Ne ricorderemo solo altre due: 18 dicembre 2006, che licenziò le Raccomandazioni del consiglio e del parlamento europeo in materia di istruzione e formazione e il 5 ottobre 2008, ultima verifica dello stato dei lavori di avvicinamento ai “cinque livelli di riferimento (Benchmark) del rendimento medio europeo che l’Unione dovrebbe raggiungere entro il 2010”. Una verifica con esito assai negativo e non solo per l’Italia.

      Altre due date importanti: il 22 agosto 2007 con il Decreto Ministeriale n. 139 il Ministero della Pubblica Istruzione regolamentava l’innalzamento dell’obbligo di istruzione (in esecuzione del comma 622 art. unico della legge finanziaria  26 dicembre 2006 n. 296), individuando quattro assi fondanti tale obbligo: Linguaggi, Matematico, Scientifico- Tecnologico, Storico - Sociale, definendone e precisandone le conoscenze, le capacità, le abilità e le competenze.

       Infine, l’ultima data, direi la più significativa: il 31 luglio 2008 (la scorsa estate) il nostro parlamento, all’unanimità, approvava il Trattato di Lisbona (sottoscritto dai capi di governo dei 27 Paesi dell’Unione il 13 dicembre 2007), aprendo quindi in maniera definitiva la stagione europea per l’Italia. Sì, perché non tutti si sono accorti che l’Italia è uno Stato dell’Unione Europea, uno dei 27 Stati ed uno dei 16 Stati che usano la stessa moneta, l’Euro. Non se ne sono accorti in tanti  ministeri, anche al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca si stenta ad accettare l’idea che anche la Scuola italiana dovrà dare seguito positivo alle Raccomandazioni del consiglio e del parlamento europeo in materia di Istruzione e Formazione, se vorrà la certificazione europea dei titoli di studio rilasciati dalle sue istituzioni scolastiche.

 

I Principi guida

Nelle prossime puntate della rubrica illustreremo i Cinque Livelli di riferimento,  le Raccomandazioni del consiglio e del parlamento europeo licenziate nella seduta del 18 dicembre 2006 e le otto competenze chiave richieste a tutti i cittadini dell’Unione.

     Prima, però, è necessario conoscere i principi guida della Strategia di Lisbona e le mete cui quei principi tendono, perché, come testualmente troverete scritto nel testo licenziato dal consiglio europeo di Lisbona, entro il 2010, “l’Unione deve diventare l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo”.

     Non è la prima volta che sentiamo parlare di “economia della conoscenza”: dai pensatori illuministi del XVIII secolo in poi, i principi guida delle nuove società, quelle moderne e post-moderne, qual è la nostra attuale società, sono basati sulla ricerca, lo studio, la conoscenza. In altre parole: su un sistema di istruzione che altro non è se non la Scuola e l’Università.

    Napoleone, infatti, con la legge 4 settembre 1802 n. 75  ( per l’Istruzione Media Dipartimentale) istituiva la scuola pubblica superiore, quei licei che, nel tempo, si trasformeranno, assumendo pieghe e curvature differenti e diverse. Napoleone aveva perfettamente compreso che senza istruzione di alto livello (media e universitaria) anche il suo impero sorretto da guerre continue, non avrebbe avuto vita lunga, come non ebbe; mentre, invece, la sua legge sulla pubblica istruzione superiore divenne legge non più abrogata in tutti gli Stati europei e da questi esportata nelle colonie e in tutto il mondo.

      Ecco dunque il primo punto su cui riflettere, noi, gente di Scuola e tutto il vasto mondo che della Scuola si interessa perché la frequenta, o la frequentano figli e nipoti: giungere ad un’economia fondata sulla conoscenza.

     L’Unione intende prepararne la transizione attraverso lo sviluppo di una società dell’informazione per tutti per creare uno spazio europeo della ricerca. E’ quindi necessario realizzare il mercato interno e renderlo pienamente operativo, rafforzando la competitività e il dinamismo delle piccole e medie imprese, sviluppando  mercati finanziari efficaci e integrati grazie al coordinamento delle politiche macroeconomiche. Bisogna quindi modernizzare il modello sociale europeo, investendo nelle risorse umane e creando uno stato sociale attivo. Per realizzare questo passaggio fondamentale è indispensabile adattare i sistemi di istruzione e formazione alla società della conoscenza, garantire più posti di lavoro e di migliore qualità; modernizzare la protezione civile e favorire l’integrazione sociale.

     A qualcuno verrà spontaneo chiedersi se stiamo parlando di Scuola o di politiche economico - sociali generiche e generaliste. Stiamo invece parlando proprio del compito primo, della motivazione prima, degli scopi di una Scuola della contemporaneità globale: di una Scuola per il XXI secolo, in grado di riprendere in mano le redini della Società, di cui deve essere la punta di diamante, l’ambito quotidiano della scoperta e della ricerca di ciò che serve per la Società. Non una Scuola serva della Società, ma una Scuola per la Società, davanti alla Società.

 

I livelli di riferimento

      Ora, per capire come muoversi, in quale direzione andare e dove dirigere il percorso del nostro sistema di istruzione e formazione, bisogna fare come quando, in montagna, per capire dove si deve andare, si guarda in alto, alla cima, alla nostra meta e si studia il cammino che si dovrà percorrere.

     Ecco, dunque, la meta cui deve tendere ogni Stato dell’Unione per raggiungere gli obiettivi della Strategia Lisbona 2000/2010: meta per tutti e non per qualcuno, secondo il principio fondamentale della società della conoscenza: “non uno di meno”.

     Parliamo dei “Cinque livelli di riferimento (benchmark) del rendimento medio europeo”:

1)  abbandono scolastico prematuro: ridurre la percentuale di abbandoni scolastici almeno del 10% (il problema dell’abbandono interessa anche il ricco Nordest);

2)  matematica, scienze, tecnologie: aumentare almeno del 15% il totale dei laureati in matematica, scienze e tecnologie, diminuendo nel contempo la disparità di genere (in Italia il deficit in questo campo è a livelli terzomondiali: anzi, ci sono Stati del Terzo Mondo che ci superano!);

3)  completamento del ciclo di istruzione secondaria superiore: arrivare almeno all’85% dei ventiduenni che abbiano completato tale ciclo di istruzione (anche in questo caso la nostra soglia è fuori di più del 10% e non si vedono progressi all’orizzonte);

4)  competenze di base: ridurre la percentuale dei quindicenni con scarse capacità di lettura almeno del 20% rispetto all’anno 2000 (anche per questa competenza – sembrerebbe impossibile – i nostri adolescenti vengono prima solo dei loro coetanei turchi);

5)  apprendimento permanente (lifelong learning): innalzare almeno al 12.5% la partecipazione degli adulti in età lavorativa (25 – 64 anni) all’apprendimento permanente.

     Questa dunque la meta generale per raggiungere quella società della conoscenza capace di competere a livello planetario con la realtà cinese, ad esempio, dove ogni anno le università sfornano qualcosa come 4 milioni di laureati o quella indiana, con un milione ed oltre di laureati, o, ancora, quella malaysiana con oltre cinquecentomila laureati. Realtà con cui già si confronta l’Occidente, confronto da cui uscirà perdente (U.S.A. compresi) se non cambia radicalmente rotta e non inizia ad investire massicciamente nell’istruzione e nella formazione.

     È naturale che di fronte a queste mete e a queste realtà planetarie un cittadino dell’Unione si chiede cosa potrà fare, come fare, dove andare.

     La risposta ce l’ha sotto casa, nelle scuole del suo quartiere, dalle scuole dell’infanzia, alle scuole primarie, dalle scuole secondarie di primo grado a quelle secondarie di secondo grado alle università.

     Sono le scuole che frequentano i suoi figli o i suoi nipoti: non può pensare che il problema non lo riguardi e che riguardi altri. Il problema ci riguarda tutti, uno per uno, anno per anno, scuola per scuola, perché senza l’istruzione e la formazione nessuno di noi, nemmeno il più ricco o quegli che si crede il più forte, potrà andare da qualche parte, se non alla sua estinzione, come individuo e come società.

     Nella Scuola, dunque, nell’istruzione e formazione sta la salvezza del singolo e della società.

 

Documento del 18 dicembre 2006

      Prendiamo ora in considerazione il documento “Raccomandazioni del parlamento europeo e del consiglio del 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente”.

     Il documento lo potete trovare in tanti siti, come, ad esempio, quello del Parlamento europeo o il sito dell’ex-Indire (ora A.N.S.A.S.).

     Il documento si compone di  quattordici considerazioni, cinque raccomandazioni, quattro intenzioni e, in allegato, la compiuta descrizione delle competenze chiave.

     Analizzeremo con pazienza gli snodi e i punti principali di questo testo che viene da una lunga riflessione e altrettanto lunga maturazione, iniziata con il Trattato di Maastricht, come abbiamo accennato, e, in particolare con le dichiarazioni di intenti di Lisbona marzo 2000.

      La prima considerazione che propongo è generale: nella lettura del documento, a mio avviso, bisogna prioritariamente tenere in considerazione il fine: l’apprendimento permanente (Long life learning) che riguarda tutti i cittadini dell’Unione, dall’infanzia a dopo la pensione.

     Sembra un’ovvietà, ma non lo è assolutamente: la scuola (primaria, secondaria, terziaria) non esaurisce la richiesta e la necessità di cultura in una società contemporanea che scopre nella conoscenza la forza prima del suo progresso: civile, morale, economico.    

      Penso alle tante forme di analfabetismo di ritorno che disastrano le nostre democrazie e permettono, anzi, cercano una comunicazione del consenso acritico, soprattutto quando certificato dalle politiche vincenti: di governo o di sottogoverno, anche di antigoverno.

     Il silenzio e l’indifferenza che circondano, fasciano, nascondono i problemi reali, mettendo in primo piano, sotto i riflettori della pubblicità mediatica, fatti secondari, personali, importanti in linea di massima, ma non primari.

     Di questi giorni è il caso della famiglia Englaro.

     Domani sarà un altro fatto di cronaca, utile a far passare in secondo piano altri problemi, altri disastri.

     A volte, anche altri fatti validi e positivi.

     L’esempio migliore lo fornisce la storia quotidiana della nostra scuola, presente sui media solo quanto succedono fatti negativi. Mai o raramente presente per le tante, tantissime buone pratiche la caratterizzano giorno dietro giorno.

      Così in Italia sembra esistere solo la malascuola, la  malasanità, la malauniversità baronale, la ma giustizia, la malapolitica.

      Tutto serve per un martellante porta-a-porta della più totale disinformazione, cui concorrono tutti: di destra, di centro, di sinistra, per la impellente necessità di apparire, di esserci, di stare sotto i riflettori, e, possibilmente, di bucare lo scherzo.

      Tutto questo stato triste di scarsa civiltà della comunicazione deriva proprio dall’analfabetismo di ritorno che colpisce le generazioni dai giovani ai meno giovani, soprattutto quando non hanno goduto di un’educazione alla libertà e alla critica.

      Analizzando le considerazioni e le raccomandazioni, scopriremo lo linee guida per una vera società della conoscenza, della libertà intellettuale, della critica attiva e costruttrice di progresso e benessere: sociale e morale.

 

Le cinque raccomandazioni

      Esaminiamo le prime cinque raccomandazioni, delle quali, a mio avviso,  questi sono gli spunti fondamentali per una riflessione positiva:

1)  l’apprendimento permanente come risposta alla globalizzazione e al passaggio verso economie basate sulla conoscenza;

2)  sviluppo di abilità per la società della conoscenza;

3)  realizzazione di uno spazio europeo dell’apprendimento permanente;

4)  sviluppare l’apprendimento permanente con un’attenzione particolare per misure attive e preventive rivolte ai disoccupati e alle persone non attive;

5)  i livelli di riferimento (che abbiamo precedentemente descritto).

      Penso che a nessuno sfuggirà che, di fronte all’attuale situazione mondiale (globale) di crisi economica, queste prime cinque raccomandazioni, che, del resto, derivano dalle analisi degli anni Novanta del secolo scorso e non sono quindi nuove, sono la prima e la più importante risposta ai problemi generali e particolari delle macro e delle microeconomie.

     Di questi giorni, ancora una volta, per l’Italia sono alla ribalta le problematiche ( relative alle difficoltà  e possibili chiusure o riduzioni drastiche di impiego) di fabbriche come Aprilia o del sistema Chimico di Porto Marghera.

     Anche il turista più sprovveduto, quando giunge  Venezia, via cielo e via mare, guarda stupito quelle ciminiere che fumano a pochi chilometri dalla città e non capisce come sia stato possibile, allora, accostare un patrimonio artistico che può e deve rendere lavoro e benessere, con un altro patrimonio che può rendere lavoro e benessere solo se differentemente usato.

     Nessuno potrà mai pensare che quei lavoratori della Chimica (un tempo settore primario per l’economia italiana) debbano andarsene e perdere lavoro e sostentamento.     

     Ma nessuno può pensare che quelle ciminiere continuino ad inquinare il cielo, il mare, il sottosuolo.

     Solo un piano generale e concordato di educazione permanente può affrontare e risolvere il problema doppio dell’occupazione e della salute generale.

     Non si tratta, ora, di improvvisare corsi di trasformazione o di riconversione. Troppo poco e poco efficace.

     Bisogna pensare a un progetto strategico pluriennale, a volte accennato a volte iniziato, ma tante volte abbandonato o distrutto dai licenziamenti e dalle dismissioni. Un progetto strategico che non può se non essere globale. Certamente condiviso, ma non per questo abbandonato alle avventure dell’assemblearismo.

     Vi sembrerà strano o fuori posto che un uomo di Scuola proponga queste considerazioni. Io spero di no. Spero che i lettori capiscano che quando parliamo di Scuola, convintamene parliamo di economia, di progresso, di società della conoscenza con il massimo della concretezza. Pensando ad una Scuola davanti alla società, non serva della società (servetta cacciata in un angolo), ma a servizio della società e quindi punta di diamante della società.

     In questo campo, nel Veneto, conosco esperienze splendide di riconversioni a lungo termine e sono sicuro ce ne saranno anche in tante altre regioni italiane.

      Ecco una  prima riflessione dalle cinque raccomandazioni della Strategia di Lisbona.

 

La cittadinanza

      Proseguendo la nostra riflessione, prendiamo in esame il punto sesto delle considerazioni che costituiscono la prima parte delle Raccomandazioni, in cui si riprende la relazione del Consiglio europeo del novembre 2004 dedicata al “contributo dell’istruzione alla conservazione e al rinnovo del contesto culturale comune nella società nonché all’apprendimento di valori sociali e civici essenziali quali la cittadinanza, l’uguaglianza, la tolleranza e il rispetto…”.

      Mi soffermo su questo punto perché è in discussione nel Gruppo Nazionale che sta elaborando il testo della certificazione per il compimento dell’obbligo di istruzione e il proscioglimento al diciottesimo anno di età.

     La discussione verte proprio sul tema della cittadinanza e su come far rientrare questo fondamentale passaggio verso una civiltà in grado di affrontare le crescenti diversità socioculturali.

      Come si può certificare il patrimonio di una cittadinanza acquisita come abitudine, anzi, come habitus naturale che prevede il rispetto del differente, acquisito come patrimonio e non come problema, non la tolleranza (è un sostantivo volterriano che mi infastidisce perché vi intravedo concessioni e sensi di superiorità), ma la condivisione (posso dirlo?) gioiosa, anche se difficile, dell’altro di cui io, che lo voglia o che non lo voglia, che me ne accorga o che non me ne accorga, sono responsabile, perché è fra le mie braccia (per ricordare Levinas di “Altrimenti che essere”, ma ancora prima, le riflessioni di Ivàn Fëdorovič nel libro undicesimo dei Fratelli Karamazov). Di lui, ripeto, sono responsabile: della sua vita e della sua sorte nella vita. Tanto più come educatore, come docente, come dirigente.

      Nella discussione nel gruppo, il problema nasce proprio da quii come certificare questo tipo di apprendimento della cittadinanza.

      Sull’argomento sta discutendo da questa estate la commissione Corradini, giungendo a considerazioni e soluzioni di tipo squisitamente didattico e prevedendo, anche se lo spazio è ambiguamente presente dall’attuale normativa di legge, un intervento di tipo scolastico.

       Io credo che la considerazione sesta vada oltre e contemporaneamente penetri profondamente nel problema: la cittadinanza deve diventare un habitus e come tale è quindi verificabile. La cittadinanza ha sicuramente bisogno di contenuti e di regole da conoscere e da rispettare: prima fra tutte la nostra Carta Costituzionale, che qualcuno tenta di mettere da parte dichiarandola vecchia e soprassata quando non è ancora stata attuata, anche laddove è stata novellata, come il caso del titolo V.

       Se il fine dell’istruzione è, nel rispetto degli articoli 3,9,33,34 della Costituzione, il raggiungimento di una buona cittadinanza composta di buona cultura, buone competenze, buona professione nel rispetto delle regole fondamentali della civile convivenza, allora mi sembra che una società della conoscenza, nel cotesto delle diversità socioculturali, debba essere composta da cittadini flessibili, duttili, in grado di confrontarsi, incontrarsi, sopportarsi vicendevolmente, stimolarsi, aiutarsi: con gli strumenti tipici dell’istruzione negli sviluppi dei differenti gradi, fino al terziario ed oltre.

     Il tutto è chiaramente certificabile come previsto dalle competenze chiave descritte nelle Raccomandazioni del 18 dicembre 2006 e nel DM 22 agosto 2007 n. 139: Regolamento per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione.

    Così, credo, si possono porre le basi per “consentire alle persone di accedere al mando del lavoro e di rimanervi” finalità concreta dell’istruzione “al fine del rafforzamento della coesione sociale”.

      Come si può constatare, parlando di scuola, parleremo sempre di società. Civiltà: parleremo di polis, faremo sempre politica.

 

Gli obiettivi non raggiunti

I punti settimo ed ottavo  delle considerazioni invitano ad una riflessione grave e quanto mai preoccupante.

     Punto settimo: non sono stati raggiungi gli obiettivi in materia di istruzione e formazione come previsti dalla commissione nel 2005 per quanto riguarda la dispersione scolastica, la preparazione generale degli adolescenti all’età di quindici anni, il tasso di completamento di istruzione secondaria superiore e la partecipazione degli adulti all’apprendimento; inoltre “dai dati raccolti emerge che le persone scarsamente qualificate hanno minori probabilità di partecipare al perfezionamento professionale”.

     La considerazione, come si vede espande il problema indicato nella sesta e da noi commentato nella precedente riflessione.

      Argomento grave che non viene sollevato quasi mai, anche se ha  una storia antica come la nostra occidentale. Mi riferisco, infatti, come primo spunto di riflessione al dialogo  platonico La Repubblica nel famosissimo mito della caverna ( libro VII 514b – 520) che vi invito a rileggere, insieme con una complessa e ricca riflessione  di Hans Blumenberg (H.B. “Uscite dalla caverna” Medusa ed. 2009). Riprendo l’affermazione platonica (La Repubblica II, 361 a):”Il più alto grado di ingiustizia consiste nel sembrare giusti senza esserlo” cui aggiungo la riflessione di Blumenberg”… una delle tecniche che l’ingiusto utilizza per sottrarsi alla visibilità, è il dono persuasivo della parola che gli consente di evitare con successo di sottoporre le proprie azioni alle pubbliche accuse” (op.cit.p.76).
      Perché parto da qui per invitarsi a riflettere sulla settima considerazione?

     In Italia, soprattutto nelle regioni del boom, del miracolo economico (io sono del Nordest “miracolato” e so e vivo  quello che dico) è molto facile riscontrare percentuali di dispersione totale, o di quell’altra dispersione che è la frequenza saltuaria che comporta una formazione ridotta e priva di quella maturità culturale richiesta dalla nostra Costituzione e dal parlamento e consiglio europeo.

      Per quattro anni ho fatto il preside in un liceo del lago di Garda: molti dei miei studenti incominciavano a frequentare regolarmente a stagione finita (dopo i Morti) e se ne andavano, di fatto, con la riapertura della successiva (ai primi di maggio). Ricordo ancora quello che mi disse una mamma di uno studente sveglio e molto bravo, quando era presente a scuola,  cui facevo “ingenuamente” notare quanto stesse perdendo suo figlio con quelle lunghe assenze, veri e propri abbandoni:”Signor preside, mio figlio in quei tre mesi che non viene a scuola, guadagna quanto lei tutto l’anno! Vuole che gli dica di rinunciare alla macchina, alla casa che già si sta costruendo?”

      Un ricordo che abbino ad una dichiarazione di Romano Prodi nel dicembre del 1995 alla Fiera di Verona in occasione della fondazione dell’Ulivo veronese:”Non si può essere ricchi e ignoranti per più di una generazione” .La sala mugugnò rumorosamente e ci trovammo ad applaudire in pochi, fra i volti scuri degli altri. Nel già ricco Nordest dove chiudono ogni anno migliaia di fabbrichette, si sta avverando quello che Prodi diceva, perché senza la  cultura d’impresa e generale, che deriva da una costante riqualificazione del proprio lavoro, non si potrà verificare quel perfezionamento professionale che permette di proseguire  e di confrontarsi a livello sempre più ampio, in un contesto che è fisiologicamente in costante, inarrestabile espansione planetaria.

     Ha quindi forza risolutiva quanto indicato nell’ottava considerazione che qui riporto a conclusione:”Il quadro di azioni per lo sviluppo permanente delle competenze e delle qualifiche additato dalle parti sociali europee nel marzo 2002 ribadisce la necessità che le imprese adattino le loro strutture più rapidamente per poter rimaner competitive L’accresciuto lavoro di squadra, l’appiattimento delle gerarchie, la maggiore responsabilizzazione e una crescente necessità di mansioni polivalenti portano allo sviluppo di istituzioni formative. In tale contesto la capacità delle organizzazioni di identificare competenze, di mobilitarle e riconoscerle e di incoraggiare lo sviluppo tra tutti i lavoratori rappresenta la base per le nuove strategie competitive.

   Senza scuola non si va da nessuna parte e la Scuola spesso sottovaluta questa sua radicale funzione di civiltà dell’economia.

 

Scuola e Università

La nona e la decima considerazione pongono l’accento sul problema chiave dello sviluppo sociale, civile, economico dell’Unione: la carenza di educazione e formazione permanente, anzi,  la disabitudine o l’indifferenza nei confronti di questo problema. Disabitudine ed indifferenza che creano quell’analfabetismo di ritorno che è la palude dentro cui stagnano le generazioni anziane, sia quelle che ancora svolgono una professione che quelle in pensione.

     Sull’argomento ritorneremo.

    Ora ci interessa maggiormente quanto affermato nella nona considerazione, dove si rileva che più di un terzo delle forza lavoro europea (80 milioni di persone nel 2004)” … è scarsamente qualificata,  mentre si è stimato che entro il 2010 quasi il 50% dei nuovi posti di lavoro richiederà qualifiche di livello terziario, poco meno del 40% richiederà un diploma di scuola secondaria superiore e solo circa il 15% sarà adatto a persone in possesso soltanto di una scolarizzazione di base” cioè dieci anni: l’assolvimento dell’obbligo.

     Di fronte a queste percentuali mi viene da tremare.

     Penso alle centinaia di storie dei miei studenti diplomati, anche con valutazione buone, persi nei meandri del fuoricorso, sopravissuti con qualche lavoro, accettato perché non c’era altro. Nessuna vera qualifica professionale, non perché la diano tutte le facoltà, ma perché la laurea può aprire la strada alla/della professionalizzazione.

      Se le stime sono ancora valide – e temo di sì – solo il 20% degli iscritti al primo anno di università si laurea utilmente, cioè in tempo, con una laurea spendibile sul mercato.

      Cifre alla mano, per l’Italia, ci troviamo ad avere tante – sempre comunque poche – lauree che non serviranno e pochissime che serviranno a chi le ha conquistate e per la società che le attende.

      Oggi sono stato alla discussione di laurea triennale di un consistente gruppo di miei studenti: una folla di parenti, amici, conoscenti stipata nel corridoio dove si aprivano le aule per la discussione. Una discussione giocata in pochi minuti su una tesi di poche decine di pagine, con una bibliografia di ricerca manualistica. Tesine senza fini e senza sostanza che non fanno prevedere orizzonti professionali. Ed è così anche per le tesi di specializzazione: qualcosa di più, ma poco. Troppo poco per le attese di Lisbona e Maastricht. Per le nostre attese.

      Allora ci si deve chiedere: cosa sta facendo la scuola secondaria di secondo grado? Cosa fa la scuola terziaria, cioè l’università? Cosa fanno per rispondere efficacemente a queste due considerazioni? Per la secondaria di secondo grado sono in vista solo tagli: alle ore di insegnamento, alle cattedre, alle classi. Per l’università, nulla che riduca quella incredibile parcellizzazione delle cattedre nate per genesi politico-amicale più che per necessità di ricerca scientifica utile per lo sviluppo sociale, civile, economico del Paese.

      Vanno radicalmente riformate Scuola e Università, ma non come si vorrebbero riformare oggi!

     Vanno ricostruite sulla base della solidità dell’impianto culturale, rivedendo i curricoli, esaltando l’autonomia, verificando i percorsi e gli esiti: con costanza, con rigore, con obiettività. Va valorizzato il merito e va introdotta la selezione, non per eliminare, ma per indirizzare; non per cacciare, ma per orientare.

      Si sta facendo qualcosa di simile?

     Si sta pensando?

     I nostri politici ( di tutti gli schieramenti) lo stanno pensando?

     I nostri dirigenti lo stanno pensando?

     I nostri rettori lo stanno pensando?

 

Differenze e lavoro comune

Le considerazioni, dalla decima alla quattordicesima, contengono il primo riferimento alle competenze chiave (su di esse ci soffermeremo analizzandole una per una) di cui devono essere in possesso tutti i cittadini dell’Unione; il principio della progressiva uguaglianza uomo/donna nel lavoro e nelle opportunità di lavoro; il raccordo istruzione/formazione mondo del lavoro; la necessità di avviare in tutti gli Stati membri efficaci processi di riforma del sistema istruzione/formazione; infine,  la necessità che gli Stati membri non procedano da soli e isolatamente nei processi di riforma, ma , in forza dell’articolo 5 del Trattato di Lisbona (principio di sussidiarietà), attivino processi comuni e collaborativi.

      La conclusione delle considerazioni mi sembra indichi senza ombra di dubbio quali siano gli atti fondamentali da compiere e i fini da raggiungere attraverso un processo efficace di riforme.

     Il punto cardine di questa prima parte  delle Raccomandazioni del 18 dicembre 2006 che stiamo esaminano mi sembra sia la filosofia del lavoro comune. O meglio, di un processo comune di riforme studiate e attuate avendo di mira mete comuni e comuni principi, perché, se l’Unione non vuole essere solo una parola sulla carta ed un inno “europeo” alla Gioia, è chiaro che l’istruzione/formazione di tutti gli Stati, nel rispetto delle caratteristiche di ogni uno di essi, dovrà avere una forte caratteristica comune.

      Oggi ogni Stato dell’Unione si diversifica praticamente in tutto: dalla scuola primaria (da quando si inizia a frequentare: da cinque a sette anni) alla scuola secondaria di primo e secondo grado (la durata complessiva varia da dodici a tredici anni), alle varie forme di università e accademie.

      Non possiamo ignorare le differenti storie che caratterizzano da secoli i vari Stati.    

      Come ignorare le vicende secolari della tradizione inglese, o quelle germaniche di Federico II o le riforme napoleoniche e via dicendo per ogni Stato dell’Unione?

     Da basi differenti, tuttavia, con un cammino che non potrà essere breve, si dovrà arrivare a processi di certificazione comune – come di fatto si sta già progettando con gli EQF: European Qualification Framework – perché, alla fin fine, se gli studi servono per arrivare a professioni utili, credo risulti chiaro a tutti che un medico, un ingegnere, un avvocato, un insegnate sono tali in qualunque Paese dell’Unione.

       E qui si appunta un altro percorso tutto o in gran parte da verificare, se non proprio da aprire: il raccordo scuola/mondo del lavoro.

      Non penso solo alle università e alle scelte troppe volte superficiali compiute dalla maggioranza degli iscritti, causa prima del pesante fenomeno del fuori corso e degli abbandoni. Vado più indietro: quante volte le famiglie scelgono l’indirizzo di studio solo in base alla vicinanza dell’istituto ai luoghi di abitazione? Può anche essere che, se fatta bene, una scuola valga l’altra (ho i  miei dubbi seri in proposito), ma è certo che una scuola frequentata di mala voglia non condurrà se non a disaffezione allo studio, forte desiderio di finirla appena possibile, e nuovi facili errori nelle successive scelte.

     Anche questo è argomento grave che, per quello che conosco della situazione nel nostro Paese, presenta aspetti che devono destare grande preoccupazione. Faccio uno solo dei tanti possibili esempi: il liceo classico in sofferenza al Centro Nord, in buona tenuta al Centro Sud.

     Perché?

 

Le raccomandazioni

Proseguendo nella lettura del testo del 18 dicembre 2006, veniamo alla cinque raccomandazioni che precedono il tema centrale della Strategia di Lisbona, le Otto competenze chiave.

      Si apre nelle raccomandazioni un panorama di civiltà della conoscenza che poggia su di un principio fondamentale: l’educazione e l’istruzione continua come prassi naturale per tutti i cittadini dell’Unione, dalla scuola alla pensione, puntando tuttavia sulla prassi della riconversione e dell’aggiornamento, con un’attenzione sollecita e puntuale nei confronti dei cittadini in difficoltà: “Si tenga debitamente conto di quei giovani che a causa di svantaggi educativi determinati da circostanze personali, sociali, culturali o economiche, hanno bisogno di un sostegno particolare per realizzare le loro potenzialità educative”.

     Mi soffermo su questa seconda raccomandazione, perché quanto sta avvenendo in alcuni stati europei in questi ultimi anni (Francia e Italia in particolare) ignora e contrasta questa raccomandazione.

      Infatti, non è certo riducendo il tempo-scuola e la spesa per la scuola che si viene incontro a questa diffusa categoria di giovani.

     Probabilmente per i figli della borghesia colta e agiata la scuola potrà anche essere un tempo se non inutile certo non strettamente necessario. Questi cittadini, infatti, godono di tante altre possibilità di apprendimento e di arricchimento personale.

      Il parlamento europeo – e la nostra Carta Costituzionale – giustamente pensano a quella fascia giovanile che, senza la scuola, non potrà mai percorrere la difficile strada del progresso sociale e culturale, né mai potrà raggiungere quei risultati professionali che le sue potenzialità intellettuali permetterebbero.

     Un’ingiustizia sociale che, alla fine, si riversa negativamente su tutta la società, perché restringe e riduce le possibilità complessive e continua a destinare il meglio delle risorse a classi sociali sempre più ridotte ed esclusive: privilegiate.

     Vorrei ricordare che il liceo napoleonico prevedeva un assai ridotto quadro di lezioni settimanale (poco più di venti ore) che si accompagnava allo studio pomeridiano guidato, ma che era il segnale evidente che dietro quei giovani c’erano famiglie colte che integravano con la loro cultura e con la loro possibilità economica quanto la scuola istituzione non aveva quindi bisogno di offrire.

      Vi pare che oggi si possa ragionare in questi termini?

      Eppure quando si tagliano tempo pieno, ore di laboratorio, ore di lezioni, e si riducono gli insegnamenti a orari settimanali sempre più filiformi, si ragiona come se tutte le famiglie fossero in grado di integrare positivamente ed efficacemente i processi di apprendimento.       

     Poiché così non è, quali altre agenzie sostituiranno famiglia e scuola?

     Tutte le reti telematiche che invadono quotidianamente quasi tutte le fasce sociali giovanili: numerarle è ormai quasi impossibile. Basti l’ultima: twitter. Una rete, una vera ragnatela che non so quanto comunichi realmente, mentre temo di sapere quanto formi radicalmente. Per non parlare di tutto il sistema televisivo, pubblico (esiste ancora?) e privato(dominante) efficace veicolo ideologico che spesso ignora la scuola o la presente solo in negativo.

      Che farne dunque, allora, di questa seconda come delle altre raccomandazioni?

      Non saprebbe il caso di meditarle con sincera passione civile e trasformale in dettati di riconversione della nostra sempre più debole e massificata società?