La ricerca Le cifre dell'Ambrosetti

Pochi laureati e scarsi investimenti
Rapporto sull'Italia ultima in Europa

Paolo Foschi Il Corriere della Sera 25.7.2009

ROMA — Italia fanalino di coda in Europa per la spesa pubblica e privata per l'università; ultima come numero di laureati nella fascia di popolazione in età compresa fra i 25 e i 64 anni; a metà classifica per quanto riguarda il «citation impact », cioè il numero di citazioni sui giornali delle pubblicazioni scientifiche, cioè una sorta di indicatore del valore delle ricerche. Sono questi alcuni dei dati, elaborati da vari enti e organismi italiani e internazionali, sui quali The European House Ambrosetti, il gruppo di ricerca che ogni anno promuove il Forum di Cernobbio, sta lavorando per fotografare lo stato di salute del sistema universitario del Paese.

«Purtroppo il sistema sconta una serie di ritardi, ma le iniziative messe in atto dal ministro Gelmini possono aiutare a risolvere alcuni dei problemi — commenta Andrea Beretta Zanoni, docente di Economia aziendale a Verona e responsabile del gruppo di ricerca sull'università dell'Ambrosetti —. È giusto intervenire per definire una migliore allocazione delle risorse, tanto più in un quadro nel quale i fondi a disposizione sono purtroppo oggettivamente pochi, come mostrano i dati sulla spesa pubblica per l'università negli altri Paesi. Ma premiare gli atenei virtuosi è sicuramente il primo passo per rendere più competitivo il sistema». La dispersione delle risorse, secondo il professor Beretta Zanoni, è un problema concreto: «Spesso si dice che ci sono troppo università o troppe cattedre. In termini assoluti non è vero. Però è vero che alcuni insegnamenti e alcune università non hanno mercato e quindi la loro presenza non è giustificata ».

I dati sulla spesa per l'istruzione sembrano in effetti impietosi: in Europa si va dall'1% del Pil della Repubblica Ceca all'1,7% di Danimarca e Finlandia, la media dei Paesi Ocse è all'1,3%. L'Italia, insieme alla Slovacchia, indossa però la maglia nera: spende appena lo 0,9%. E la quota pubblica, nel nostro Paese, è ferma al 69,6%, mentre in Grecia e Finlandia supera il 96%. «La situazione è anche destinata a peggiorare perché dal primo gennaio 2010 scattano i tagli decisi l'anno scorso dal ministro Giulio Tremonti. Come ha sottolineato proprio sul Corriere l'economista Francesco Giavazzi, molte università rischiano di non farcela», dice Luciano Modica, responsabile del Pd per il settore università, che però approva le novità introdotte dal ministro Gelmini: «Del resto sono misure messe a punto dal governo Prodi...».

Secondo Guido Tabellini, economista e rettore della prestigiosa Bocconi di Milano, il problema però non è solo nella quantità di risorse pubbliche stanziate: «In Italia le tasse universitarie sono troppo basse, sono fra le più basse in Europa ». E comunque «introdurre il criterio della meritocrazia servirà sicuramente a dare efficienza a tutto il sistema». C'è però chi contesta — almeno in parte — la linea Gelmini: «Ben vengano i premi agli atenei migliori — dice Luigi Frati, rettore della Sapienza di Roma, la più grande università europea per numero di iscritti, bocciata però nella valutazione del ministero —. Il problema è che la valutazione diffusa dal ministro Gelmini è stata fatta su dati vecchi, soprattutto per quanto riguarda la ricerca ed è stata fatta con criteri che non hanno quel carattere di oggettività necessario per mettere tutte le università sulla stessa linea di partenza ». Una gara falsata, dunque, secondo Frati, anche perché «nelle commissioni giudicatrici c'erano troppi professori universitari in potenziale conflitto di interessi. Serve un'agenzia di valutazione realmente autonoma». «È giusto che ci siano rappresentanti del mondo delle università negli organismi di valutazione — aggiunge il professor Tabellini —, l'importante è che siano definiti protocolli di valutazione oggettivi che non lascino spazio a interpretazioni o giudizi soggettivi ». E anche sui criteri, il rettore dell'ateneo romano ha delle forti perplessità: «Come può il tasso di occupazione dei laureati diventare criterio di valutazione dell'efficienza di un'università? Anche un cretino capisce che a Reggio Calabria e a Milano le possibilità lavorative per i neolaureati sono diverse, ma ciò non dipende necessariamente dalla qualità dei corsi di laurea...».

La quota dei laureati è invece un dato più complesso da interpretare. L'Italia è all'ultimo posto in Europa con il 13% dei laureati sulla fascia di popolazione fra i 25 e i 64 anni. «Sicuramente è un dato molto allarmante e sconta il fatto che nella popolazione più anziana la percentuale di laureati è bassissima — dice Modica — ma in realtà almeno da questo punto di vista la situazione è migliorata: se si considera lo stock di popolazione dei 25enni, l'Italia è al sesto posto in Europa dietro ai paesi scandinavi». Il gap sul numero dei laureati per quanto riguarda le nuove generazioni sembra dunque in fase di recupero. Ma a questo punto, secondo gli esperti, si pone un altro problema: l'università italiana sforna il numero e il tipo di laureati giusti? «Purtroppo ancora non c'è il giusto incrocio fra domanda e offerta e spesso alcuni corsi di laurea risultano inadeguati per le richieste del mercato», ammette Beretta Zanoni.