Valgono anche i riscatti di laurea e militare.
Tornano i maxi-prepensionamenti di Pietro Piovani, Il Messaggero 18.7.2009 ROMA Da una parte si chiede alle donne di andare in pensione più tardi, perché non è giusto smettere di lavorare a 60 anni. Dall’altra si impone a tutti i dipendenti pubblici (donne comprese) di andare in pensione anche prima di aver compiuto 60 anni, perché bisogna rinnovare la pubblica amministrazione. Due emendamenti in evidente contraddizione fra loro vengono inseriti in una stessa legge, il decreto anticrisi. Non solo, c’è anche un terzo emendamento in corso di approvazione alla Camera, e che riguarda due altissimi dirigenti statali: per questi due personaggi di rilievo la pensione viene rinviata a data da destinarsi, in deroga al tetto dei 67 anni previsto per tutti gli altri dipendenti pubblici italiani. Dal decreto nato per favorire la ripresa dell’economia potrebbe insomma venir fuori un nuovo regime previdenziale per il pubblico impiego, con tante regole sparse, quasi personalizzate, e che fanno a pugni fra loro. 40 anni di contributi. Già dallo scorso anno il governo ha introdotto un articolo di legge che consente alle amministrazioni di mandare in pensione forzata i dipendenti con almeno 40 anni di contributi. Inizialmente la misura era stata scritta in modo che nel calcolo dell’anzianità contributiva venissero compresi anche gli anni del servizio militare e della laurea, ma il Parlamento ha ristretto il cerchio specificando che i 40 anni di contributi devono essere «effettivi». Negli ultimi sei mesi però si sono ripetuti i tentativi di riportare il testo alla sua forma iniziale. Ora finalmente sembra che il governo ci stia riuscendo. La norma è stata ripresentata come emendamento al decreto anticrisi, la commissione Bilancio le ha prima dichiarate inammissibili ma poi ha fatto marcia indietro dopo l’intervento personale del sottosegretario all’Economia Alberto Giorgetti. Gli interessati. La differenza fra una versione e l’altra non è cosa da poco. Se nel conteggio dei contributi si includono i riscatti di militare e laurea, la platea dei possibili prepensionandi si allarga notevolmente. In particolare gli effetti si farebbero sentire nella sanità, poiché tutti i medici hanno alle spalle il lungo periodo dell’università e della specializzazione. L’Inpdap ha calcolato che, se alla norma sui 40 anni viene data l’interpretazione più ampia, il numero dei pensionamenti in un anno raddoppierebbe: quasi 140 mila uscite contro le abituali 70 mila. Le donne. Nel frattempo si sta approvando una misura di segno opposto: l’aumento dell’età della pensione per le donne del pubblico impiego. Dall’anno prossimo la soglia deve passare a 61 anni (anziché 60), e nel 2018 arriverà a 65. Ci si potrebbe trovare così di fronte al paradosso di vedere in un’amministrazione una dipendente che vuole andare in pensione “di vecchiaia” a 60 anni e non può farlo, mentre in un’altra amministrazione una sua collega di 58 o 59 anni viene mandata forzatamente in pensione “di anzianità”. L’Inpdap. Per l’istituto previdenziale del personale pubblico la norma sulle donne è ovviamente un’ottima notizia. Il presidente dell’Inpdap Paolo Crescimbeni sottolinea che l’innalzamento dell’età d’uscita per le dipendenti pubbliche serve «a garantire la stabilità nel tempo del sistema pensionistico». I direttori generali. Fra gli emendamenti presentati in commissione c’è anche la tipica “leggina” ad personam. Le persone interessate in verità sono due. Uno è il direttore generale dell’Inps, Vittorio Crecco, l’altro è il direttore generale dell’Inail Alberto Cicinelli. Entrambi stanno per raggiungere i 67 anni, cioè l’età in cui tutti i dipendenti pubblici sono obbligati a lasciare il lavoro. Per loro però si sta prevedendo un’eccezione. Il tetto non vale più, e l’emendamento non indica neanche un limite più alto. In teoria, potrebbero continuare a lavorare per tutta la vita. |