Scuola e Università
Parola d'ordine per l'università:
autonomia e concorrenza

Un recente studio di alcuni noti economisti che da tempo si occupano di istruzione, mercato del lavoro e crescita mostra come autonomia e concorrenza tra atenei migliorino la qualità della ricerca e della didattica. In Italia invece è in discussione una riforma che propone qualche novità sulla governance delle università, ma non rinuncia all'atavico centralismo. E piuttosto che disegnare nuove regole di concorrenza, definisce gli argini per evitare gli abusi più vistosi, senza modificare in modo sostanziale la struttura degli incentivi in cui operano le università.

di Daniele Checchi e Tullio Jappelli, La Voce 10.12.2009

L’autonomia delle università e la concorrenza tra atenei migliorano la qualità della ricerca e della didattica. Se considerate isolatamente, autonomia e concorrenza non raggiungono il risultato. Infatti non serve lasciare maggiore autonomia alle università in un ambiente non disciplinato da concorrenza per il conseguimento di fondi di ricerca, per la selezione del personale e per la possibilità di attrarre i migliori studenti. Senza concorrenza, l’autonomia verrebbe utilizzata per perseguire scopi diversi da quelli della buona ricerca e della buona didattica. Così come non vale nemmeno la pena promuovere la concorrenza tra università se esse non hanno anche autonomia sufficiente per adottare le forme organizzative ritenute più efficienti e innovative. Sono questi i risultati di un recente studio di alcuni noti economisti che si sono occupati a lungo di istruzione, mercato del lavoro e crescita come Philippe Aghion, Mathias Dewatripont, Caroline Hoxby, Andreu Mas-Colell e André Sapir. (1)

Il merito della ricerca è di raccogliere nuovi dati su autonomia, concorrenza e performance delle prime 500 università nel mondo, e di confrontare in modo sistematico gli indicatori raccolti. Il risultato principale è che le università migliori sono anche quelle più autonome e che agiscono in ambienti più competitivi.

 

INDICATORI DI SUCCESSO

Tra i vari indicatori di successo, gli autori utilizzano la graduatoria proposta dall’università di Shanghai che prende in considerazione: (1) il numero di ex alunni che ha vinto il premio Nobel in fisica, chimica, medicina ed economia o la Field Medal in matematica (10 per cento del punteggio totale); (2) il numero di docenti che ha vinto il premio Nobel o la Field Medal (20 per cento); (3) il numero di lavori pubblicati su Nature o Science (20 per cento); (4) il numero di lavori pubblicati secondo il Science Citation Index (20 per cento); (5) il numero di lavori molto citati secondo la banca dati Thomson Isi (20 per cento); (6) gli indicatori descritti divisi per il numero complessivo dei docenti (10 per cento). L’indice di Shangai è stato criticato perchè è distorto a favore delle scienze naturali e della medicina; tuttavia, è fortemente correlato con molti altri indicatori di successo delle università. (2)

Lo studio costruisce inoltre un indicatore di autonomia e concorrenza tra università, definendo più autonome e concorrenziali le università quando il budget non è approvato dal governo, quando possono selezionare gli studenti all’ingresso, retribuire i docenti secondo parametri stabiliti dalle università stesse, stabilire autonomamente le procedure di reclutamento dei docenti, quando hanno un tasso minore di endogamia (misurato come percentuale di docenti che hanno conseguito il dottorato di ricerca nella stessa università), sono proprietarie delle proprie strutture, possono stabilire autonomamente la propria offerta formativa, hanno una percentuale minore di entrate da trasferimenti pubblici e quando ricevono una quota più elevata di finanziamenti da fondi di ricerca assegnati in modo competitivo.

Come si vede nella figura, anche se si limita l’analisi alle sole università europee, l’indice di performance è fortemente correlato con l’indice di autonomia e concorrenza. Si notano le posizioni di Italia e Spagna, che ottengono valori particolarmente bassi nella classifica di entrambi gli indicatori. Al contrario, le università dei paesi scandinavi e del Regno Unito sono quelle che raggiungono i punteggi più elevati. L’analisi si concentra poi sugli Stati Uniti, dove convivono all’interno dei singoli stati diversi sistemi di istruzione terziaria, ed evidenzia che la relazione positiva tra concorrenza e autonomia da una parte e performance dall’altra emerge anche all’interno di quel paese.

La conclusione dell’analisi è che se si desidera migliorare la qualità degli atenei occorre salire nella classifica degli indicatori di autonomia e concorrenza, che, secondo gli autori, sono fortemente complementari.

 

Relazione tra performance delle università europee e indice di autonomia e concorrenza

Nota: BEL Belgio, DEN Danimarca, FIN Finlandia, GER Germania, IRE Irlanda, Italia, NET Olanda, SWE Svezia, SWI Svizzera, UK Regno Unito.

 

LA RIFORMA ITALIANA

Esaminiamo, alla luce di questo studio, le proposte di riforma contenute nel disegno di legge governativo n. 1905/2009 attualmente in discussione al Senato. (3)

Nel passato, l’università italiana ha goduto di un certo grado di autonomia, sia per quanto riguarda gli ordinamenti didattici (a partire dal 1999), sia per quanto riguarda la selezione del personale docente (dal 1998). Tuttavia l’assenza di rendicontazione e valutazione ha consentito lo sviluppo di una fortissima autoreferenzialità del sistema, con la proliferazione dei corsi di laurea e il localismo esasperato dei concorsi per i docenti. L’assenza di concorrenza tra atenei, rafforzata dalla normativa sul valore legale del titolo di studio, ha generato quindi il connubio “autonomia senza concorrenza”, che nella ricerca descritta viene indicato proprio come una delle cause della scarsa performance di ricerca dei sistemi universitari.

Purtroppo, il progetto di riforma Gelmini riduce il grado di autonomia e non rafforza sufficientemente la concorrenza tra atenei.

Viene riformata la struttura della governance, rafforzando la figura del rettore e riducendo la dimensione del consiglio di amministrazione, con un massimo di undici membri. Ciò consentirà di dare un impulso più deciso all’attività dell’ateneo, attenuando i veti incrociati che oggi si manifestano nella dialettica tra gli attuali organi di governo (senato accademico e consiglio di amministrazione). Coerentemente si rafforza la struttura di governo in caso di dissesto finanziario, con la previsione della figura del commissario. Tuttavia, la riforma non amplia l’autonomia degli atenei nella scelta delle modalità organizzative preferite, perché le norme che regolano i nuovi statuti sono molto rigide, fissando la numerosità e la composizione dei consigli di amministrazione, il numero massima delle facoltà, i compiti dei dipartimenti e delle facoltà, e così via.

 

LA QUESTIONE DELLE RISORSE

L’aspetto più negativo della riforma, tuttavia, ci sembra il fatto che non si rafforza la capacità degli atenei di competere tra loro, tanto che le parole “concorrenza” e “competere” non ricorrono mai nel testo. Una delle condizioni indispensabili per pianificare l’attività di un’università è l’ammontare di risorse disponibili. Su questo aspetto il disegno di legge non fornisce alcuna garanzia di certezza e continuità. Nonostante si ribadisca ripetutamente la necessità di una pianificazione finanziaria triennale, non si indica come evitare situazioni come quella corrente, in cui le università hanno conosciuto solo a fine settembre l’entità del Ffo (fondo di finanziamento ordinario) loro assegnato per l’anno in corso. Sorprende inoltre come, nell’ambito di una riforma complessiva degli assetti degli atenei, non si provveda a rimuovere il tetto alle tasse universitarie (attualmente non possono superare il 20 per cento dell’Ffo). Gli atenei non potranno quindi scegliere la combinazione preferita tra prezzo richiesto e qualità offerta, e quindi non potranno competere efficacemente tra loro nel quasi-mercato della formazione terziaria.

Se le università non potranno competere sul prezzo per attrarre studenti, dovranno competere tra loro per attrarre finanziamenti pubblici, che tuttavia restano incerti. In questa prospettiva costituisce sicuramente un elemento positivo il rafforzamento dei nuclei di valutazione di ateneo, specificando la necessità di terzietà rispetto ai valutati. Nel caso delle università, tuttavia, il vero elemento di concorrenza è la qualità del corpo docente, il fattore più importante per attrarre migliori studenti e maggiori fondi per la ricerca. Il disegno di legge rafforza le competenze dei dipartimenti nella selezione del corpo docente, ma non chiarisce quali siano gli incentivi che dovrebbero favorire la scelta dei migliori, perché i fondi per la ricerca saranno trasferiti agli atenei e non ai dipartimenti o ai singoli gruppi di ricercatori che hanno contribuito ai risultati. Rimane inoltre preclusa la possibilità di variare le retribuzioni dei docenti, un altro fattore strategico per favorire la concorrenza tra università.

La riforma in discussione combina alcuni elementi innovativi sulla governance con l’atavico centralismo che caratterizza la pubblica amministrazione italiana, da sempre sospetta dell’eccesso di autonomia delle proprie articolazioni periferiche. Piuttosto che disegnare nuove regole di concorrenza (il playing field) si è scelto di definire alcuni argini per evitare gli abusi più vistosi, senza modificare in modo sostanziale la struttura degli incentivi in cui operano le università.

 

NOTE

(1) Il lavoro è The Governance and Performance of Universities: Evidence from Europe and the U.S., di Philippe Aghion, Mathias Dewatripont, Caroline Hoxby, Andreu Mas-Colell e André Sapir, in corso di pubblicazione su Economic Policy.

(2) La graduatoria di Shangai è fortemente correlata con altri tre indicatori: l’indice Heeact (Higher Education Evaluation and Accreditation Council of Taiwan), Times Higher Education e Webometrics Ranking of World Universities. In particolare, Heeact pubblica anche graduatorie per ciascuna disciplina, e si basa sul numero di lavori pubblicati negli ultimi undici anni (10 per cento) e nell’anno corrente (10 per cento); numero di citazioni negli ultimi 11 anni (20 per cento) e negli ultimi due anni (10 per cento); numero di lavori molto citati negli ultimi 11 anni (15 per cento); numero di articoli pubblicati su riviste ad elevato impatto nell’anno corrente (15 per cento), indice H per gli ultimi due anni (20 per cento).

(3) Si tratta delle “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”, meglio note come “riforma Gelmini”.