La Lingua batte dove la scuola duole

di Alberto Sobrero La Gazzetta del Mezzogiorno 27.12.2009

Hanno scoperto che i nostri studenti, anche universitari, non conoscono l’italiano. Nei giorni scorsi quasi tutti i giornali hanno dedicato pagine e pagine alla disperazione di presidi e rettori, che si sono visti costretti a improvvisare corsi rapidi di italiano per gli iscritti al primo anno, riconosciuti come semianalfabeti. Meglio tardi che mai, ma non si dica che la notizia è fresca. Sulle pagine di questo quotidiano ne abbiamo parlato più volte, e da tempo. L’Università di Lecce ha scoperto il problema da molto tempo, ed è stata fra le prime in Italia a istituire corsi di rinforzo delle competenze, soprattutto di scrittura, degli studenti: il «Progetto Orientamento» del 1999 - cioè dieci anni fa - prevedeva un «Servizio di Italiano scritto» che si è concretato, a partire dal 2000, nell’«Orientamento alla Scrittura per l’Università e per il lavoro»: 180 posti, aperti a studenti di vari anni di corso (e fuori corso) e a tutte la Facoltà.

Fu un successo: perché non si davano voti e giudizi ma si faceva didattica, e ci si rivolgeva a persone responsabili che, consapevoli dei propri limiti - di cui spesso non avevano colpa - volevano migliorare il loro italiano. Alla fine, per i migliori c’erano premi in libri. E anche questo piacque molto. Il risultato, insomma, fu lusinghiero.

Adesso scoprono il problema atenei importanti, lo scoprono le facoltà scientifiche, e diventa la notizia del giorno, inattesa e sconvolgente. Come avrebbe detto Totò? Ma mi faccia il piacere...

Che i nostri ragazzi abbiano, per così dire, un’alfabetizzazione «leggera» lo sanno tutti, non c’è nemmeno più bisogno di statistiche. O meglio, basta un dato per tutti, che fotografa il livello di alfabetizzazione della nostra civiltà: le ricerche più recenti e più affidabili dimostrano che il 5% della popolazione italiana di oltre 14 anni è di fatto analfabeta (nel senso che non sa neppure comprendere un avviso del tipo «apertura 8-14» o scrivere la lista della spesa) e un altro 20% è semianalfabeta (non vi è mai capitato di trovarvi davanti a un orario ferroviario e sentirvi chiedere: «Per favore a che ora è il treno per Fasano? Sa, ho dimenticato gli occhiali...»?). In quanti hanno gli strumenti, di lettura e di scrittura, necessari per muoversi agevolmente in una società complessa come la nostra? Il 20% circa. Uno su cinque. Chi si illudeva che in quel 20% ci fossero tutti gli studenti universitari sbagliava i suoi conti, grossolanamente. Ci sono soprattutto le persone di mezza età e anziane, acculturate in una società diversa dalla nostra. Gli studenti universitari sono giovani, e hanno un rapporto con la lingua che riflette quello dei giovani più che degli scolarizzati. Cioè difficile.

Nelle rubriche di quotidiani e settimanali, quando ci si allarma per gli strafalcioni di italiano, di solito si punta l’indice sulla permissività di scuola media e superiore, sui cattivi modelli di cinema e tv, sugli sms. In realtà mi pare che le cause siano ancora più complesse e coinvolgano le trasformazioni epocali che la nostra società ha subito nell’ultimo mezzo secolo (oltre alle colpe immense dell’Università, della formazione degli insegnanti ecc.). Ma fermiamoci pure alla grande accusata, la scuola media e superiore. Anche perché fra i tanti responsabili è forse l’unico su cui si può in qualche modo, volendo, intervenire, anche a livello individuale. In attesa dell’intervento «di sistema» che, sappiamo bene, non arriverà.

Mi pare che fra i punti di debolezza della scuola, almeno cinque riguardino l’educazione linguistica. Li dirò in modo brutale.

1) L’insegnamento della letteratura è ritenuto molto, troppo più importante dell’insegnamento della lingua, sul presupposto sbagliatissimo che padroneggiare l’italiano sia una dote innata. Si perpetua una variante tarda del modello umanistico-letterario che era proprio della scuola di élite, in una scuola che di élite non è più, a ragazzi che non hanno gli strumenti di base per apprezzare le opere letterarie. Non solo: si insegna troppo spesso letteratura senza far leggere i testi, o facendone leggere pochi e male. E questo significa spargere il seme dell’odio per i testi letterari.

2)  L’insegnamento dell’italiano è quasi sempre ancorato a un concetto monolitico di lingua, oggi del tutto ingiustificato, per non dire campato per aria. Si dovrebbero passare anni a insistere sulle varietà della lingua: sulle differenze sostanziali fra scritto e parlato, fra registri, sulle caratteristiche delle più importanti lingue speciali. E invece si fa qualche cenno - quando lo si fa - a questi argomenti «strani», e poi via con il tema, con l’amplificazione retorica, con la ripetizione passiva, con la matita rossa e blu. Se a questo si aggiunge che non si insegnano da nessuna parte nozioni fondamentali, per dire, di economia e di diritto, si arriva a risultati sconcertanti. La stragrande maggioranza degli studenti non sa scrivere in modo conciso, né sa leggere testi che nella vita sono fondamentali, come le istruzioni per seguire un iter amministrativo o semplici disposizioni di legge.

3) Si fanno pochissimi esercizi di scrittura, soprattutto nelle superiori. E ben raramente si insegna a pianificare e a revisionare un testo scritto.

4)  Si fa poco e male - o non si fa per nulla - la «grammatica», col risultato che si iscrivono alla facoltà di Lingue ragazzi che non sanno che cos’è, com’è fatta e come funziona una lingua. Nessuna lingua. Con questa base di partenza molti troveranno grandi difficoltà ad imparare davvero una lingua straniera, e pochissimi arriveranno a possedere la faticosa tecnica - o arte - della traduzione.

5)  Ossessionati dal timore di dover bocciare o, ancor più, di irritare le famiglie, molti, troppi insegnanti hanno abbassato la soglia delle prestazioni necessarie per avere la sufficienza. Errori da correggere in terza elementare arrivano così all’Università e oltre, mentre prose sciatte e insopportabili tiritere retoriche sono valutate come prestazioni eccellenti. Creando le premesse per frustrazioni, abbandoni, fallimenti, o al contrario pretese immotivate, arroganza, persino violenza.

Forse, su questi cinque punti si può cominciare a riflettere e intervenire già adesso, come si usa dire, «dal basso», senza aspettare riforme miracolose che non arriveranno mai. L’educazione è una cosa difficile: quella linguistica è oggi difficilissima.