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La scuola dei tagli senza un progetto.

Condivisibile l'obiettivo di una riduzione del personale e di una riorganizzazione della rete delle scuole. E probabilmente ragionevole una revisione degli orari di insegnamento almeno negli istituti professionali. Ma nel piano del governo manca un progetto educativo e non c'è alcuna valutazione delle conseguenze dei provvedimenti decisi. Sembra emergere solo la necessità di far cassa rapidamente. Gli stessi risultati si potevano ottenere con interventi alternativi, che non avrebbero colpito altrettanto pesantemente e casualmente l'offerta didattica. Il problema del sostegno.

 di Massimo Bordignon e Daniele Checchi da La Voce, 6.10.2008

Il piano del governo sulla scuola prevede la riduzione di 87.400 insegnanti e di 44.500 unità di personale amministrativo nel triennio 2009-2012, di cui, rispettivamente, 42.000 e 15.000 solo nel primo anno.
Per raggiungere questi obiettivi, si prevedono interventi sulla rete delle scuole e sugli ordinamenti scolastici: riduzione nel numero di ore insegnate nei vari livelli di scuola e modifiche nell’organizzazione della didattica, tra cui la reintroduzione del maestro unico alle elementari.
Il piano solleva dunque almeno tre domande: 1) gli obiettivi sono ragionevoli? 2) gli interventi previsti consentiranno di raggiungerli e a che costi? 3) Si poteva fare qualcosa di meglio?

 

IL NUMERO E LA DISTRIBUZIONE DEI DOCENTI

Sul primo punto la risposta è sì. Sulla base delle statistiche internazionali, l’Italia non spende per studente in modo molto diverso dagli altri paesi sviluppati: 2.971 dollari (a parità di potere di acquisto) in Italia, contro la media Ocse di 3.072. Tuttavia, è al ventinovesimo posto in termini di risultati sugli apprendimenti. (1) Tra le ragioni, l’abnorme sproporzione della spesa per il personale, che è tanto ampia da finire con il mangiarsi tutte le altre componenti di spesa, compresa quella per l’incentivazione e la carriera dei docenti, oltre che per la valutazione dei risultati. Gli insegnanti sono più della media Ocse - il rapporto alunni/insegnanti è pari a 10.7 nella scuola primaria e secondaria, contro una media Ocse di 16.2 e 13.2 rispettivamente -, insegnano meno ore e sono pagati meno degli altri paesi. Per l’incapacità di governarne razionalmente la mobilità, sono anche mal distribuiti sul territorio nazionale. Èanche vero che alla base di questa sproporzione ci sono, tra l'altro, orari scolastici mediamente più lunghi per gli studenti e una rete scolastica eccessivamente frammentata nei punti di offerta e mai riformata. Razionalizzare la rete, ridurre il numero degli insegnanti, e del personale Ata, e razionalizzarne la presenza sul territorio, allo scopo di liberare risorse da impiegare nel settore, rappresenta dunque una priorità per ogni politica di riforma seria della scuola italiana.

LE PROPOSTE DEL GOVERNO

Dunque, le proposte del governo sono giuste? Qui la risposta è più incerta. Èpossibile che le politiche scelte sugli ordinamenti, ma non certo la razionalizzazione della rete che ha tempi lunghi, siano utili per tagliare personale e risparmiare soldi alla svelta. Anche se è lecito qualche dubbio, visto che il ministero fornisce solo cifre aggregate e non spiega come i vari interventi proposti dovrebbero incidere sul personale. Per esempio: non si capisce dove e in che misura il modello del maestro unico alle elementari verrà applicato, considerato che continuano a essere previsti moduli organizzativi alternativi, compresi quelli basati sulle 40 ore. Ma in tutti i casi, oltre a quello di far cassa, non si capisce quale sia l’obiettivo formativo sottostante all’azione del governo. Per esempio, è probabilmente giusto ridurre gli orari di insegnamento negli istituti professionali, dove in alcuni casi si superano le 36 ore, considerato che sono mediamente più lunghi di quelli di paesi esteri che pure funzionano meglio in campo didattico. Ma non si capisce quale è, e se c’è, il progetto educativo sottostante. Perché tre ore in meno alle medie oppure 30 ore massime ai licei o 32 agli istituti tecnici o professionali? Quali insegnamenti verranno sacrificati? E perché? Inesistente anche la valutazione delle conseguenze. Ridurre il tempo prolungato nella scuola primaria produrrà sicuramente risparmi in termini di organico docente. Tuttavia, l’evidenza ci dice che stare più ore a scuola alla primaria aumenta la probabilità di completare la scuola secondaria, un effetto che compensa lo svantaggio relativo dovuto all’istruzione dei genitori. Sono stati presi in considerazione questi danni potenziali in termini di eguaglianza nelle opportunità?

 

ALTERNATIVE POSSIBILI

Criticare è però fin troppo facile. La domanda vera, visto che l’obiettivo della riduzione del personale è condivisibile, è se c’erano interventi alternativi che non colpissero altrettanto pesantemente e casualmente l’offerta didattica. La risposta è sì. Il capitolo sull’istruzione del rapporto della Commissione tecnica sulla finanza pubblica ne descrive alcuni (LINK). Per esempio, il numero eccessivo di insegnanti alle elementari e medie dipende in larga misura dal modo in cui le classi sono ora formate, cioè a livello di singolo istituto. Riportare la decisione a un livello più alto, per esempio, i bacini di utenza, spostando se necessario tra scuole limitrofe gli studenti in eccesso, sarebbe di per sé sufficiente a ridurre fortemente il numero delle cattedre, con costi limitati per le famiglie. Ancora, il numero elevato di insegnanti dipende anche dalla presenza di deroghe eccessivamente generose sui numeri minimi di studenti necessari per formare le classi. Quella sui comuni montani, per esempio, pensata per garantire il servizio scolastico in situazioni estreme, interessa in realtà oltre il 20 per cento della popolazione studentesca.
Più in generale, le proposte del governo sembrano soffrire di un vecchio vizio ragionieristico; quello di credere che sia sufficiente scrivere una norma perché questa venga poi applicata. In realtà, l’esperienza del passato dimostra che non è così. Coloro che prendono le decisioni che davvero incidono sul personale scolastico (enti locali e Regioni per la rete scolastica, dirigenti di istituto per l’organico) hanno ampi spazi di azione, garantiti dalla normativa e dalla specificità del servizio scolastico, per annullare gli interventi centrali. Perché questi funzionino, è necessario che gli incentivi tra centro e periferia siano allineati. Oggi, è vero l’opposto. Se un comune chiude una scuola inefficiente, oppure se un dirigente scolastico riesce a risparmiare sull’organico nella formazione delle classi, ne paga solo i costi senza alcun beneficio, perché tutti i risparmi in termini di personale vanno al centro. Idee innovative, come il budget prefissato di insegnanti a livello di provincia e di singola scuola, introdotte dal precedente governo e che avrebbero consentito di superare il problema, sono scomparse nelle proposte attuali.

 

CARENZA

C’è infine una curiosa assenza nelle proposte governative. Non è possibile pensare di intervenire in modo efficace sulla spesa del personale docente in Italia se non si affronta con coraggio anche il problema della tutela degli studenti con handicap. Gli insegnanti di sostegno sono l’unica categoria ad aver mostrato una crescita incessante nell’ultimo decennio, fino a raggiungere l’11 per cento del totale nel 2007, con un costo complessivo per le finanze pubbliche che può essere stimato, in difetto, in oltre 4 miliardi di euro. In più, la loro distribuzione territoriale è sospetta. Lo stesso numero di studenti disabili produce il 50 pr cento in più di insegnanti di sostegno al Sud rispetto al Nord. Le politiche relative alla tutela devono essere riviste, introducendo criteri più rigorosi nell’accertamento della disabilità, protocolli che specifichino l’utilizzo del personale per tipologia di disabilità e che consentano di verificare l’efficacia delle politiche di integrazione. I primi a essere beneficiati sarebbero proprio gli studenti più bisognosi di tutela.

 

(1) Per la spesa si veda Education at a glance 2008, tabella B7.2. Per gli apprendimenti ci riferisce a Pa 2006, competenze scientifiche.

 

Rapporto revisione spesa pubblica