Gli insegnanti, come dice Brunetta, di Marcello D’Orta da il Sussidiario 10.10.2008 È uno dei maestri più famosi d’Italia: colui che ha ironicamente immortalato le proprie disavventure didattiche nel celebre “Io speriamo che me la cavo”. Da allora è diventato l’emblema di chi vive la professione dell’insegnante in situazioni quasi da frontiera, ma che al tempo stesso è capace di riderci un po’ su e di accettare con un pizzico di benevolenza le arroganze, gli errori e gli strafalcioni dei propri alunni.
Marcello D’Orta è già da qualche giorno che sta
parlando bene dell’operato del ministro Gelmini: in particolare gli
va a genio che ritorni la figura del maestro unico come «punto di
riferimento» importante. Un po’ meno bene vanno invece le
dichiarazioni del ministro Brunetta, secondo cui gli insegnanti alla
fine prendono un ottimo stipendio in considerazione del fatto che
fanno un lavoro “part-time”.
Anch’io purtroppo conosco molte persone che
ancora ritengono che l’insegnante faccia quattro ore al giorno di
lavoro, e tre mesi di festa. Questa è una convinzione dura a morire,
perché per decenni è stato così: il maestro stava in classe dalle 8
alle 12 e poi andava a casa, e si faceva giugno, luglio e agosto in
vacanza. Adesso la situazione è completamente cambiata: le ore sono
più di quattro; ci sono i corsi di aggiornamenti; ci sono state fino
a quest’anno le schede di valutazione, che richiedevano tutto un
complesso e impegnativo giudizio psicologico; c’è la compilazione
del port-folio, una sorta di dossier sui ragazzi; i mesi di ferie
non sono tre, perché almeno per tutto giugno si è impegnati.
Insomma, c’è tutto un mito da sfatare.
È un lavoraccio, soprattutto se fatto in
determinati ambienti. E bisogna pure aggiungere che questi
“determinati ambienti” non sono pochi in Italia: praticamente quasi
tutto il Mezzogiorno presenta grossissime difficoltà. Io ho una
certa esperienza, perché per quasi vent’anni ho insegnato nelle
periferie degradate di Napoli, come a Secondigliano; ma non c’è
grossa differenza rispetto a certi quartieri di Palermo, Catania o
Bari. Ma anche in certi posti della periferia di Milano o di Roma la
situazione spesso non è molto diversa. A testimonianza che il mio
lavoro non era una passeggiata, basti solo ricordare che io mi sono
preso tre esaurimenti nervosi.
Io starei nel mezzo, tra chi dice che è un
part-time e chi ne parla come di una missione; il che forse può
suonare un po’ retorico, anche se per alcuni può essere sicuramente
così. Diciamo che se fatto bene è un lavoro pesante, che impegna
moltissimo. Il problema, come lei diceva, è proprio quello della
dignità: dal ’68 in poi, infatti, l’insegnante è stato messo al muro
da tutti. Innanzitutto dai ragazzi, perché la contestazione è nata
proprio tra i banchi di scuola, con slogan come “vietato vietare”.
Un altro passaggio importante, poi, sono stati nel 1974 i decreti
delegati, che potevano essere un’ottima cosa, perché davano la
possibilità ai genitori di entrare nel vivo della scuola, ma poi
alla fine hanno portato a un’ingerenza eccessiva da parte dei
genitori nella vita della classe. Al giorno d’oggi i genitori, per
una punizione, una bocciatura o qualsiasi altra cosa, ricorrono al
Tar; che, il più delle volte, dà loro ragione. Di fronte a tutto
questo molti professori, per dirla alla napoletana, hanno concluso:
“ma a me, chi m’ ‘o ffa fa’?”. Hanno allargato le braccia, e hanno
iniziato a lavorare di meno. Perché non ci sono risultati.
Qui si inserisce il discorso importantissimo
della meritocrazia, che da molti è erroneamente quasi associata al
fascismo. Non è così: il concetto di merito c’è ovunque, e guai se
non ci fosse. E a questo naturalmente si ricollega anche lo
stipendio. Gli insegnanti in realtà sono stati sempre poco pagati,
tanto che già Collodi diceva: «infelici maestri, hanno stipendi
diafani e impalpabili come l’aria», e «mangiano una colazione in
miniatura e un pranzo dipinto all’acquerello». Ora i dati confermano
questo: rimaniamo agli ultimi posti in Europa, con insegnanti di
scuola media con 15 anni di anzianità che guadagnano circa 27mila
euro lorde all’anno.
La valutazione è più problematica. Le domande
sono due: cosa misurare, e chi deve misurare. Il giudizio, secondo
me, non posso che darlo gli stessi alunni, in concerto con le
famiglie. Prendiamo il mio esempio. Io ero insegnate un po’
alternativo: sapendo che i miei ragazzi non riuscivano a stare nel
banco per molto tempo, li portavo spesso fuori a giocare, o in
palestra, ed erano per me momenti importanti dal punto di vista
pedagogico. Per molti colleghi, invece, ero uno che non aveva voglia
di faticare, e quelle erano solo perdite di tempo. Poi la cattedra
l’avevo quasi eliminata, e stavo tra i ragazzi, per farmi sentire
più vicino a loro; e anche su questo ero un po’ contestato dai
colleghi. Quindi se il giudizio sul mio operato fosse spettato a
loro, sarebbe stato negativo. Gli alunni e i genitori invece erano
molto soddisfatti, e il loro giudizio sarebbe stato positivo.
Sì, è vero, mi sono espresso a favore del
maestro unico. Io sono stato maestro unico, e quello è sempre stato
il mio lavoro. Quello che mi preoccupa, e che mi fa ritenere
importante questa scelta, è la crescita affettiva e psichica del
bambino. Il maestro unico è in questo senso una figura importante,
un punto di riferimento per i bambini, ed è indispensabile che sia
così. In generale mi sembra che l’attuale ministro stia facendo una
serie di cose positive, come anche il voto in condotta e
l’insegnamento dell’educazione civica, che possono dare un po’ più
di serietà e di autorevolezza alla nostra scuola. |