I ricercatori precari e l'università
per sentito dire
Risposta a Francesco Giavazzi
Anna Carola Freschi e Vittorio
Mete*, La Stampa,
8.11.2008
Tra le tante stravaganze nell’intervento di
Francesco Giavazzi
intitolato "La fabbrica dei docenti" sul Corriere della Sera del 28
ottobre,
la più insostenibile è che la L.133 non abbia rappresentato un
blocco di fatto dei concorsi per ricercatore.
Giavazzi sostiene che i concorsi per ricercatore - a suo avviso
sovrabbondanti - “assicureranno un posto a vita ad altrettanti
dottorandi che lamentano la loro condizione di precari. In tutte le
università del mondo ad un certo punto si ottiene un posto a vita,
ma ciò avviene solo dopo aver dimostrato ripetutamente di saper
conseguire risultati nella ricerca” (corsivo nostro).
Se Giavazzi si prendesse la briga di scorrere i curriculum dei
candidati ai concorsi per ricercatore in Italia scoprirebbe che
nella quasi totalità dei casi non si tratta di dottorandi, ma di
ricercatori maturi, scientificamente e spesso anche anagraficamente,
con pubblicazioni ed esperienza didattica e di ricerca ampiamente
consolidate.
Infatti,
in Italia i ricercatori in ruolo
sotto i 30 anni, età in cui si è già conseguito il titolo di dottore
di ricerca, sono solo l’1,3%
(Cfr. M. Vaira, L’organizzazione universitaria alla prova della
riforma, in: Moscati R. e Vaira M., L’università di fronte al
cambiamento, il Mulino, 2008, p. 41).
Del resto, è solo
la
carenza di risorse che impedisce a molti di questi candidati di
presentarsi direttamente a concorsi per professore associato,
per i quali avrebbero tutti i titoli. Per inciso, all’estero a quel
“certo punto” cui si riferisce Giavazzi ci si arriva con stipendi e
contratti di lavoro dignitosi; in Italia seguendo percorsi
accidentati ed economicamente frustranti.
E’ importante chiarire, giusto per dovere di cronaca, che
dottorandi, dottori di ricerca e ricercatori precari non hanno mai
chiesto e non chiedono oggi una ‘sanatoria’ o una ope legis per il
loro inserimento nei ruoli universitari, come scrive Giavazzi.
Hanno
sempre chiesto più concorsi, su una
base regolare e hanno sempre invocato nuove regole e più trasparenza
nella valutazione del loro lavoro.
Si vedano a proposito i documenti dell’ADI-Associazione dei
dottorandi e dottori di ricerca e della RNRP-rete nazionale
ricercatori precari.
Giavazzi poi non considera affatto che anche i professori, prima o
poi, vanno in pensione. Al 2005, il 40,7% degli ordinari aveva più
di 61 anni (ivi, p. 39). Nei prossimi tre anni sono previsti almeno
7000 pensionamenti (ibidem).
Una previsione di 2000 nuovi ricercatori all’anno riuscirebbe appena
a mantenere la dotazione attuale di personale strutturato, già
carente nel confronto internazionale; e certo non inciderebbe se non
in piccola parte sul problema di assumere i molti
ricercatori-docenti precari scientificamente maturi che
costituiscono la base del funzionamento di ricerca e didattica in
molti atenei.
Ma siamo ben lontani da queste considerazioni, che presupporrebbero
la volontà di un rafforzamento della ricerca e dell’università
pubbliche di cui ha bisogno il paese nel contesto internazionale.
Quanto alla preoccupazione
sull’esodo degli “studenti migliori” di domani, ricordiamo che gli
studenti migliori di ieri, oggi ricercatori precari, già emigrano.
Sempre più emigreranno se non ci sarà un numero di concorsi adeguato
a motivare ed integrare quella che solo da noi può essere
considerata un costo e non una risorsa: trentenni e quarantenni
qualificati, che producono cultura e conoscenza a vantaggio
dell’intera collettività.
Università e ricerca pubblica di qualità non si fanno “coi fichi
secchi”, ma solo investendo e massimizzando la valorizzazione delle
risorse presenti.
* Anna Carola Freschi e Vittorio Mete insegnano all'Università
di Bergamo, di Firenze e di Catanzaro