Docenti stranieri per salvare l'università L'unica vera soluzione sarebbe azzerare tutte le gerarchie accademiche. Ma può farlo solo un dittatore. Le proteste contro le decurtazioni indiscriminate non ci inducano a difendere lo status quo. Un professore che ha spesso insegnato all'estero affronta i problemi dei nostri atenei falcidiati dai tagli del governo Piergiorgio Odifreddi, la Repubblica, 18.11.2008 I recenti provvedimenti, in verità parecchio sprovveduti, presi dal governo sulla scuola e sull'università hanno avuto almeno un effetto positivo: quello di stimolare all'autocoscienza studenti e professori, e di attirare l'attenzione della popolazione sulle disastrose condizioni in cui versa l'istruzione nel nostro paese, dalle elementari ai dottorati di ricerca. La protesta contro i tagli indiscriminati ai fondi e al personale, a cui si riducono tutti i provvedimenti citati, non può però essere intesa come una difesa dello status quo e dell'organizzazione del nostro sistema scolastico e universitario, i cui molti anacronismi non trovano l'uguale in Europa e nel mondo. Per evitare di fare un discorso accademico (un termine che, significativamente, potrebbe essere inteso sia come «universitario» che come «ozioso»), mi sia permesso di riferirmi direttamente alle mie esperienze di studio e di insegnamento all'estero: dopo essere entrato all'Università di Torino nel 1973, dapprima come borsista, e poi via via come contrattista, assistente, associato e ordinario, mi sono infatti parallelamente perfezionato alle Università dell'Illinois e della California negli Stati Uniti (1978-80) e di Novosibirsk nell'Unione Sovietica (1982-1983), e in seguito sono stato un regolare professore a contratto a Cornell (1985-2003), oltre che uno sporadico visitatore di università australiane e cinesi, nelle quali ho trascorso rispettivamente un semestre (1989) e tre (1992, 1995, 1998). In queste lunghe visite, ho naturalmente avuto occasione di sperimentare l'organizzazione degli studi in paesi sia capitalisti che comunisti, e di scambiare informazioni e opinioni coi colleghi stranieri, sollevando dovunque la sorpresa e l'incredulità per i nostri meccanismi didattici e concorsuali. Primo fra tutti il nostro assurdo sistema di esami, che non solo è tuttora in vigore, ma viene considerato dagli studenti come un diritto acquisito, invece che il residuo fossile di un bizantinismo degno forse di altri tempi, ma sicuramente indegno del nostro. Dovunque abbia insegnato, invece, mi venivano comunicati con mesi di anticipo e in maniera tassativa non solo le date di inizio e di fine dei corsi, e l'orario delle lezioni, ma anche le date degli esami. Anzi, la data dell'esame, perché esso avveniva inderogabilmente per scritto e in un unico giorno, con una prova uguale per tutti, a distanza più o meno di una settimana dalla fine del semestre: altro che la nostra operetta di prove orali e appelli multipli, che in molti casi arrivano fino a otto all'anno, e permettono agli studenti di ripresentarsi indefinitamente a sostenere lo stesso esame, a distanza magari di anni da quando è stato tenuto il corso! Perché ci stupiamo che metà degli studenti universitari siano fuori corso, quando siamo noi stessi a spingerli a non tenere nessun ritmo e a permettere loro di non dare gli esami nell'unico momento in cui ha senso darli? Per quanto posso testimoniare io, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Russia, Cina e Australia, e dunque indipendentemente dal sistema economico del paese, chi non passa l'esame al momento giusto deve ripetere il corso l'anno dopo, con tutti i costi (letterali e metaforici) che questo gli comporta. E chi si inalberasse a sentire la parola «costi», dovrebbe meditare su quelli comunque esatti dal nostro sistema: invece di un giorno di esami e uno di correzioni degli scritti, da noi ogni orale richiede infatti una media di mezz'ora per studente, e dunque spesso centinaia di ore per corso, che vanno moltiplicate per il fattore di ripetizione studentesca dell'esame e per il numero dei commissari delle commissioni. Un enorme dispendio di risorse, che potrebbero essere meglio utilizzate altrimenti. Con un sistema del genere, che richiedesse di tornare una mezza dozzina di volte l'anno per gli appelli, io non avrei mai potuto insegnare all'estero, né avrei potuto dedicare il mio tempo alle uniche attività che un professore dovrebbe svolgere, e cioè l'insegnamento e la ricerca. A proposito delle quali, va notato che in Italia la progressione di carriera è determinata (almeno ufficialmente, a parte le distorsioni sulle quali torneremo) dalla sola ricerca, mentre gli obblighi universitari riguardano il solo insegnamento: una schizofrenia singolare, che non tiene in nessun conto il fatto che un bravo ricercatore può essere un pessimo insegnante, e viceversa. In Unione Sovietica si evitava questa schizofrenia permettendo ai professori di ripartire il proprio impegno tra la ricerca presso l'Accademia delle Scienze e l'insegnamento presso l'Università, in proporzioni variabili, che potevano arrivare fino al cento per cento dell'una o dell'altro. Negli Stati Uniti il sistema è più complesso, ma le università in genere pagano lo stipendio soltanto per i nove mesi dell'insegnamento: i rimanenti tre mesi devono essere finanziati dalla National Science Foundation (fatte le dovute proporzioni, un analogo del nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche) e da accordi con industrie o centri di ricerca privati. A proposito di stipendi, una differenza sostanziale è che negli Stati Uniti essi non sono rigidamente legati a un'automatica «progressione di carriera», e vengono invece contrattati individualmente con la propria Facoltà, sulla base di parametri che tengono conto del livello e dell'impegno del docente: in particolare, le valutazioni provengono non soltanto dai colleghi locali e nazionali, ma anche dagli studenti, che alla fine di ogni corso compilano anonimamente dettagliati questionari sulla qualità generale e specifica dell'insegnamento. Una bella forma di tutela, questa, che elimina alla radice la piaga di quei professori terroristi che bocciano sistematicamente la maggioranza degli studenti, senza rendersi conto del fatto che questo la dice più lunga sul livello del loro insegnamento che su quello dell'altrui apprendimento. Quanto al reclutamento dei professori, e sebbene questo possa sembrare inconcepibile da noi, negli Stati Uniti esso viene deciso dalle università in totale autonomia, anche se ovviamente sulla base della distribuzione di potere inter - e intradipartimentale. I candidati sono invitati a presentare un paio di «lettere di raccomandazione», e possono decidere se riservarsi o no il diritto di visionarle: naturalmente, facendolo si condannano a un giudizio asettico e tutto sommato inutile, mentre non facendolo si assoggettano all'espressione di un giudizio spassionato e spesso determinante, in ogni caso supplementato dai pareri di esperti interpellati direttamente dall'università. Il processo mira ovviamente a selezionare il migliore, anche perché l'istituzione ha tutto l'interesse a farlo. Il valore di mercato delle lauree e dei dottorati dipende infatti dal livello delle università in cui sono conseguiti, e questo livello è certificato da apposite graduatorie nazionali, ottenute attraverso sondaggi in cui i professori di ciascuna università valutano il livello delle altre, senza poter valutare la propria. Non avendo invece nessun incentivo a selezionare i migliori, le nostre università finiscono spesso di accontentarsi dei peggiori, cooptati in base ai «criteri» clientelistici, nepotistici e favoritistici che tutti conosciamo. Per continuare con le testimonianze personali, io stesso ho dovuto vincere la cattedra due volte, perché la prima che vinsi fu dirottata a un ricercatore che nel frattempo non era riuscito a diventare associato per mancanza di titoli! Di casi simili ogni professore ne può citare a volontà, ma le mele marce che nel frattempo sono entrate a valanghe in università, ci sono rimaste e hanno proseguito la loro carriera: quel ricercatore, ad esempio, è poi diventato preside di facoltà da qualche parte, e altri saranno arrivati anche più in alto.
Fanno dunque tenerezza, per non dir
altro, i tentativi del ministro di introdurre meccanismi di
sorteggio dei commissari nei concorsi a cattedre: a parte il fatto
che queste pensate erano già state adottate nel passato, senza alcun
effetto visibile, non si può ovviamente impedire che la mala sorte
selezioni proprio le mele marce, né è da esse che ci si può
sensatamente attendere un rinnovamento. L'unica vera soluzione
sarebbe un immediato azzeramento di tutte le gerarchie
universitarie, ma poiché nemmeno un dittatore potrebbe imporre una
misura così radicale, bisogna aspettare che lo facciano gradualmente
l'età e la pensione. Nell'attesa possiamo pure sorteggiare i
commissari per i futuri concorsi: ma che siano stranieri, che
possano portare gradualmente il nostro povero Bel Paese ai criteri e
agli standard adottati nel mondo intero, dagli Stati Uniti alla
Russia alla Cina all'Australia. |