IL REPORTAGE

"Noi, poveri laureati in benessere dei cani"

Esami duri a Bari: «Ma questo è un titolo inutile»

Giuseppe Salvaggiulo, La Stampa, 9.11.2008

INVIATO A BARI
Preside, ieri parlavano di noi in radio a Zapping!». L’austero ufficio di Canio Buonavoglia, preside della facoltà di Veterinaria dell’università di Bari, da qualche giorno è una trincea. E quello che annunciano i professori Giuseppe Crescenzo e Maria Tempesta è il bollettino di guerra. «Un giorno Ballarò, poi Otto e mezzo, Annozero, ora la radio: ce l’hanno tutti con noi». Tanta indesiderata fama si deve al corso di laurea, unico in Italia, in allevamento igiene e benessere del cane e del gatto. «Ormai è diventato un tormentone. “A Bari studiano la felicità di cane e gatto”. E giù risate. Capisco, la denominazione è originale e si presta... ma questo non è un beauty center, non vedo lo scandalo: se il cane è così importante, addirittura un componente della famiglia, non serve una preparazione per gestirlo senza procurargli stress?». Domanda girata agli studenti sotto la pioggia in attesa del bus che li riporti in città: «Certo che serve la laurea per evitare lo stress al cane, ma servirebbe di più una laurea che dia un lavoro. E questa non lo è».

Il corso di laurea più strano d’Italia è nato quattro anni fa in questo ufficio. E a partorirlo furono proprio Buonavoglia, Crescenzo e Tempesta. «Notti intere a preparare il piano didattico». Montagne di carte da sottoporre al ministero. «Che gioia quando da Roma arrivò l’approvazione definitiva. Ci chiamavano dalle altre università: bravi, ottima idea, colma un vuoto culturale. Chi l’avrebbe detto che sarebbe diventata l’emblema delle lauree inutili?».

Corso triennale senza specializzazione («Siamo un 3+0», ironizzano gli studenti), ventisette esami tosti (da chimica e fisica ad anatomia e patologia generale), piano di studi mutuato da veterinaria senza la parte chirurgica: ma a che serve una laurea in igiene e benessere di cani e gatti? «Eccome se serve - il preside non si scompone -. Oggi chiunque, operaio, giornalista, idraulico può aprire un canile o un negozio di animali e può assistere un veterinario. Senza sapere come si comporta un cane, di quanto spazio ha bisogno, come e cosa deve mangiare, quando bere, che la febbre non si misura mettendo il termometro sotto le ascelle. E poi ci sono persone a cui fa piacere imparare per cultura personale, per hobby. Invece di leggere l’enciclopedia, vengono qui».

Di certo, «il cane-e-gatto» come lo chiamano qui non è un corso fantasma. Basta girare tra le aule per accorgersene. Lezioni - sia teoriche che laboratori con gli animali - molto seguite anche se la frequenza non è obbligatoria. Ogni anno 30-35 immatricolazioni (il limite minimo imposto dal ministero è 15). Atmosfera inconsueta per un’università: docenti appassionati e disponibili (molti sono giovani), cani che zampettano nei corridoi accarezzati dai ragazzi. In tutto una novantina di iscritti pugliesi, lucani e campani. Certo, qualcuno ci arriva dopo la bocciatura al test di ammissione a veterinaria, in «parcheggio» in attesa di riprovarci l’anno dopo. Ma non è questo il problema.

«Il problema è che non sappiamo cosa diventeremo, che faremo da grandi - sgrana gli occhi Rita, terzo anno - l’ho chiesto ai professori ma non sanno rispondere. Non lo sa nessuno». Ma come, non diventate infermieri veterinari? E Francesco: «Così dicono, in realtà questa figura in Italia non esiste. Non c’è un albo, non c’è lavoro, niente». Gabriele è al secondo anno ma si sta portando avanti: «Faccio il dog sitter, almeno campo. I veterinari non ci vogliono, non sono obbligati ad avere un assistente laureato». «In effetti questo è un problema. Anche i denti può pulirli chiunque - sospira il preside - ma una legge stabilisce che serve un professionista. Ecco, servirebbe una legge anche per l’infermiere veterinario. Noi ci speriamo».

Ma di speranza, negli sguardi e nelle parole degli studenti all’uscita dai laboratori, se ne trova poca. Sono entusiasti della didattica e atterriti dal futuro. «Noi siamo studenti di serie B e questa è una laurea in via di sviluppo, come il terzo mondo», dice ruvido Gabriele. Del resto l’esperienza dei primi laureati non è incoraggiante. «Una mia amica lavora con un veterinario per 300 euro al mese», racconta Rita. Marco era arrivato da Castellammare di Stabia pieno di speranze. Ora è un dottore disoccupato e mette annunci su Internet come addestratore di bulldog: «Ho speso 15 mila euro per laurearmi, se aprivo un bar stavo meglio».

Il preside in trincea non nega le difficoltà ma resiste: «È vero, i laureati sono abbandonati a se stessi. Ma il 90% delle facoltà non garantisce un lavoro. I laureati di lettere stanno meglio? No. Allora sarebbe da matti farci chiudere il corso. Rispettiamo tutti i parametri di legge. Sprechi? I docenti sono gli stessi di veterinaria, a costo zero. Certo, ripensandoci avrei scelto un altro nome senza “benessere”. Ma se vogliono si può cambiare, non c’è problema». A sera, davanti a un caffè in un bar del centro, c’è Ilaria, iscritta al secondo anno. Ecco, lei non ha perso la speranza. «Io mi trovo benissimo, chiudere questo corso è una cavolata». E il lavoro, il futuro? «Il posto per noi c’è. Basta togliere gli incompetenti».
A Bari, sotto la pioggia, fa tenerezza. E se invece avesse ragione lei?