Le tre generazioni degli istituti comprensivi

di Giancarlo Cerini[1] da Educazione & Scuola, 26.11.2008

Qui sta – a mio parere - la ragione sociale dell’istituto comprensivo, una ragione non immediatamente percepibile (troppo debole l’idea della continuità, su cui pure si lavorò molto all’inizio degli anni ’90, ma forse con risultati inferiori alle attese, un po’ aleatori, affidati alla negoziazione locale di molti attori, comunque ad una scelta non istituzionale). Le ragioni del comprensivo si sono via via “svelate” lungo la sua recente storia, che mi piace sintetizzare in 3 generazioni, ben chiare nel corso degli anni, ma fortemente intrecciate come vedremo.

La prima generazione è quella della emergenza territoriale, geografica, come soluzione per “salvare il salvabile” nelle zone difficili, Nuoro, Isernia, per non impoverire di centri direzionali le aree interne, a bassa densità abitativa; spesso sottovalutate nel loro valore storico, fondativo della nostra identità. Come non pensare agli Appennini ed ai centri di spiritualità medievali che hanno fatto la nostra cultura (ed è per questo che c’è attenzione viva in queste realtà: vedi Manifesto di Sestino, tra Toscana e Montefeltro[8]) o ai piccoli borghi comunali con il senso dell’autogoverno (penso a San Gimignano come capitale “simbolica” dei comprensivi con le sue difese e la sua voglia di autonomia). Insomma non è un’Italia minore, quella delle piccole città, e la prospettiva degli istituti comprensivi l’ha fortemente coinvolta e valorizzata (e forse va studiato qualcosa di analogo anche per i piccoli plessi).

La seconda generazione è di quelli che hanno fortemente creduto all’idea, che hanno deliberato la “verticalizzazione” nel collegio dei docenti, che hanno cercato una legittimazione ad una sperimentazione già in atto o da stimolare. Che hanno dato vita a reti di scuole sperimentali, fin dall’inizio, attraverso progetti pilota e progetti nazionali (come quello coordinato scientificamente dal prof. Pietro Boscolo, dell’Università di Padova). Sono stati prodotti materiali di documentazione, quaderni di lavoro, ipotesi di curricoli, repertori di buone pratiche. Questo lavorìo sperimentale, non adeguatamente sostenuto a livello nazionale, si è stemperato nel corso degli anni, ma è rimasto un sottofondo diffuso che garantisce una rete di protezione culturale alla vicenda dei comprensivi.

Oggetti messi a fuoco in questa vicenda sono stati:

a) un’originale lettura del termine “competenza”, fino ad arrivare alla proposta di un curricolo verticale centrato sulle competenze (ed era il lontano 1998);

b) il concetto di ambiente di apprendimento, con attenzione alle relazioni cooperative tra alunni, ai progetti integrati tra i diversi livelli scolastici;

c) l’innovazione metodologica, che sceglie come emblema il laboratorio, anche in comune tra più livelli, e la didattica dell’ambiente (ad es. a contatto con i parchi naturali);

d) la comunità professionale (con la pratica del prestito professionale, lo scambio, la collaborazione tra i docenti).

Sono esperienze di grande valore pedagogico, che possono essere rilette anche alla luce delle nuove piattaforme programmatiche. E’ appena il caso di ricordare le Indicazioni per il curricolo del 2007, che sembrano raccogliere molti di questi spunti. Il format delle Indicazioni più recenti si attaglia molto bene al comprensivo: il testo programmatico non è la sommatoria di tre diversi programmi, ma il tentativo di un progetto unitario ed integrato (vedi le discipline “in verticale”), pur con le sue specificità. Ed è forse giunto il momento di rilanciare queste vocazioni pedagogiche per renderle criteri di qualità per il funzionamento degli Istituti Comprensivi. In questa ottica è utile il recupero delle tre fondamentali circolari sugli istituti comprensivi: la 454/1997, la 352/1998, la 227/1999 elaborate nel vivo del contatto con le sperimentazioni in atto.

La terza generazione è quella del massimo sviluppo. Dopo le stagioni dell’emergenza e delle nicchie sperimentali, il comprensivo diventa il modello di punta del dimensionamento delle istituzioni scolastiche, propedeutico al conferimento dell’autonomia. I protagonisti di quella operazione a cavallo degli anni 2000 sono i Comuni, le province, le Regioni (le loro competenze sono ben delineate nei decreti 112/98 e 233/98). Non è però solo una opportunità (giocata sulla soglia magica di 500 o di 300 alunni) per mettere ordine nelle relazioni scuola territorio, operazione certamente più “naturale” nelle vallate, nei piccoli centri con una sola scuola, nei quartieri a forte identità, più incerta negli altri contesti geografici (ad esempio nelle città capoluogo). Ma l’autonomia non è solo una scuola più vicina alla comunità. E’ una affermazione di identità, di responsabilità, di progettualità, di flessibilità delle scelte, con adeguati supporti finanziari, professionali, amministrativi, organizzativi. Ma questa è già una definizione impegnativa di autonomia, vera, su cui abbiamo bisogno di ritornare ancora, a 10 anni dal Dpr 275/1999- Dovremo riscoprire in fretta le potenzialità di quel regolamento, se passerà l’idea di un organico di istituto –come pure si legge nel piano attuativo della legge 133/2008.

Cosa emerge da questa terza generazione, così ampia, di migliaia di verticalizzazioni spesso subite malvolentieri da una scuola abituata ai suoi ritmi, alle sue identità? In primo luogo una focalizzazione sui soggetti professionali che fanno (o non fanno) comprensivo: i dirigenti scolastici – è evidente che c’è un sovraccarico, ma c’è una visibilità riconquistata, quasi una identificazione diretta. Il dirigente impersona l’unitarietà della istituzione. La sua è una professionalità che cresce: un po’ leader, un po’ manager come oggi si dice[9]. Che si prende cura di un istituto complesso. Che per farlo deve studiare modelli organizzativo-professionali ben articolati, investire sulle figure di staff, rivedere il sistema delle responsabilità (si pensi alla questione della valutazione), far uscire la collegialità dalla routine. Serve un check-up organizzativo approfondito, perché una buona organizzazione determina un buon curricolo. Ma le decisioni collegiali da prendere non sempre sono facili, perché ancora troppo diversi sono gli statuti professionali (e le condizioni giuridiche) dei docenti dei tre livelli scolastici che compongono l’istituto.

Ad ogni modo, il comprensivo invita a prendere sul serio l’autonomia, a scoprire e utilizzare fino in fondo le sue possibilità.

Questa storia, le tre stagioni, sono poi racchiuse in tre parole chiave (il territorio, il curricolo, l’autonomia/la professionalità) che hanno dettato la struttura del convegno regionale di Bologna (17 novembre 2008); i gruppi di lavoro, i focus preliminari, i documenti finali.

 

Verso i comprensivi di quarta generazione

Stiamo ormai lavorando per la quarta generazione dei comprensivi, per quelli che si affacciano solo ora sulla scena, che non possono accontentarsi di una giustificazione di routine, o di convenienza numerica o territoriale, e che sono alla ricerca di un possibile valore aggiunto. Diventare comprensivi oggi è una scelta coraggiosa, che modifica situazioni consolidate nel tempo e che può creare uno stress iniziale. Occorre condividere delle ragioni strategiche: le trovo – anche in questi tempi duri, con sfide impensabili fino a poco tempo fa, che portano a chiudersi piuttosto che ad aprirsi - nelle idee di autogoverno, di coerenza e unitarietà del progetto educativo, di una comunità professionale più consapevole, di propensione alla ricerca e all’innovazione, di legami solidi con il territorio ed il contesto locale.

Ad esempio, la quarta generazione, in merito alle relazioni con il territorio, non può limitarsi a fare il catalogo delle  buone pratiche (ce ne sono tante), a riconfermare i temi forti dei patti educativi, delle alleanze; dovrà piuttosto esplorare il tema della scuola come fattore di sviluppo locale, come uno degli elementi di quella coesione sociale, qualità sociale della vita, che fa la differenza. La scuola – se si presenta con una sua compattezza e credibilità – può diventare un “potere forte” tra gli altri, può essere un motore di sviluppo. All’inizio dell’anno scolastico, ho sentito un sindaco in una cittadina toscana (Capannori, vicino a Lucca) chiedere agli insegnanti di diventare alleati per costruire un territorio creativo (caratterizzato dalle tre T di: talento, tolleranza, tecnologia e dall’italianissima T di territorio). Questo mi sembra un bel compito, capace di ricaricare le batterie di una scuola, quando tendono a scaricarsi.

Ancora, la quarta generazione, sul tema del curricolo può spendersi sulla ricerca di un curricolo verticale, sulla condivisione di tappe, di progressioni negli apprendimenti, di standard di istituto (costruiti dal basso o almeno, validati dal basso). In questo campo è importante smentire il luogo comune di un istituto comprensivo che elementarizza la formazione di base. Infatti, non dovremo parlare solo di continuità, ma anche di discontinuità utile, di diversità degli ambienti di apprendimento…Ma per farlo occorre diventare più esperti di apprendimento, di gestione della classe, di connessione dei saperi ed occorre farlo insieme, mettendo a frutto le diverse culture professionali delle tra scuole (materna, elementare, media) che si incontrano nel comprensivo.

Infine, la quarta generazione - sul tema dell’organizzazione professionale - invita a riscoprire le dinamiche autentiche della comunità professionalità, che è fatta di senso di appartenenza, di sfida per una impresa comune (e non di gestione di un solo segmento), di dialogo costante con il territorio,  di presenza stabile di punti di riferimento. Insomma l’ipotesi è che l’istituto comprensivo sia un ambiente educativo ad alto tasso di comunicazione, di forte mobilità intellettuale, in grado di superare vecchie gerarchie tra saperi e stereotipi professionali.

Inverare questa quarta generazione è ormai compito e prerogativa delle scuole autonome. Il Ministero, gli Uffici Scolastici regionali, l’amministrazione nei suoi diversi livelli, dovranno offrire stimoli culturali, quadri di riferimento, una sicura sponda istituzionale.

Insomma a chi ci chiede di dare un’anima alla scuola, noi possiamo rispondere che ce la possiamo fare, nonostante le docce fredde delle “riforme che non finiscono mai”. A partire da una delle poche riforme costruite dal vivo, dal basso, non da eseguire, ma da scegliere e da interpretare.

NOTE

[1] Intervento di apertura al Convegno Istituti comprensivi: una sfida ancora aperta, tenutosi a Bologna il 17 novembre 2008, organizzato da USR e Regione Emilia-Romagna. Sul sito USR: www.istruzioneer.it un’ampia disponibilità di materiali e relazioni presentate durante l’iniziativa.

[2] Comune di Bologna, Per la ricostruzione della scuola di base, a cura di B.Ciari, Tip. Aldini-Valeriani, Bologna, 1970.

[3] M.L. Altieri Biagi, La programmazione verticale, La Nuova Italia, Firenze, 1992. 

[4] G. De Rita, Scuola senz’anima in “Corriere della Sera”, 10 settembre 2008.

[5] E.Galli della Loggia, Una scuola per l’Italia, in “Corriere della Sera”, 21 agosto 2008-

[6] L.Ricolfi, Il mito della scuola elementare, in “La Stampa”, 25 settembre 2008.

[7] USR-IRRE-Regione Emilia-Romagna, Emilia-Romagna 2008: la scuola e i suoi territori, 2 voll., Tecnodid, Napoli, 2008.

[8] Il Manifesto di Sestino è rintracciabile in rete: http://www.comune.laspezia.it/export/sites/SPEZIAnet/servizi/formazione_scuola/ documenti/incontri_settembrepedagogico.pdf

[9] I.Summa,Un po’ leader, un po’ manager, in “Rivista dell’istruzione”, n. 6, novembre-dicembre 2008, Maggioli ed.