Emergenza educativa

Lo strano destino
della scuola in Italia.

di Adolfo Scotto di Luzio l'Occidentale, 1.6.2008

Inserisci uno o più indirizzi separati da virgole. di Adolfo Scotto di Luzio1 Giugno 2008
Fa molta impressione il posto fatto alla scuola nel nostro discorso pubblico. Quando si pensa alla rilevanza, spesso al clamore, con il quale il tema della scuola compare periodicamente sulle pagine dei giornali italiani, nello scontro politico e sindacale, ad ondate regolari, in occasione dell’ apertura dell’ anno scolastico, al momento degli scrutini, in vista degli esami, si resta esterrefatti, come dinanzi ad una singolare sproporzione.

Da un lato, si ritiene, con una certa fondatezza evidentemente, di poter rintracciare nelle vicissitudini del nostro sistema d’istruzione e formazione i segni di una più generale condizione del paese; dall’altro, poi, della scuola si parla esclusivamente in termini di organizzazione: del lavoro (gli insegnanti), della didattica (gli studenti), del consenso (il rapporto tra la scuola e il più vasto sistema delle relazioni sociali).

Da anni ormai la scuola è oggetto di un riduzionismo a base sociologizzante, indifferente ai fini ed ai contenuti dell’insegnamento, preoccupato esclusivamente della gestione affettiva dell’eccedenza sociale prodotta dall’espansione quantitativa del sistema. Con l’esito, per tacere delle sindromi degli insegnanti e dei fenomeni delinquenziali più eclatanti dei loro allievi, che le statistiche, che ansiosamente misurano quelli che un tempo si chiamavano tremori e mal di pancia degli studenti in vista di interrogazioni ed esami, e che oggi sono diventati, in un linguaggio ricattatorio, manifestazioni del disagio adolescenziale, ci dicono tutto sulla somatizzazione di tale disagio tranne l’essenziale, e cioè se si soffre per una traduzione di Pindaro o per un esercizio di trigonometria, se a far paura è un ingegnere incattivito dal dover insegnare meccanica ad un gruppo di adolescenti brufolosi e riluttanti, o un’ arcigna professoressa di chimica.

Cosa studino gli adolescenti oggi è molto meno importante agli occhi dell’ opinione pubblica, e della scuola stessa, delle loro reazioni emotive all’ istituzione scolastica tout court, e al suo apparato formale di trasmissione del sapere. Né c’è alcuno che pubblicamente si domandi cosa, quali contenuti, quali libri, quali autori, in fondo quali parole siano di volta in volta più adatte a mettere ordine, a fare luce, a dare forma all’indifferenziato che comincia a differenziarsi che da sempre è il mondo interiore degli adolescenti.

In fondo l’idea diffusa è che non solo la scuola sia irrilevante per la vita (e questa non sarebbe una gran novità), ma che la scuola sia inutile. Che la sua residua validità stia tutta nello scambio, che essa impone e regola, tra dedizione momentanea e certificazione. Un po’ di studio in cambio di un lasciapassare verso il mercato del lavoro. In questa rappresentazione la scuola assomiglia ad una chiesa affollata di praticanti e da nessun credente. L’entusiasmo sta tutto fuori dalle sue mura. Da qui la convinzione, praticata da molti e da qualcuno pure teorizzata, che per darsi uno straccio di legittimità la scuola debba diventare come il resto del mondo, aprirsi al rumore del mondo, che vuol dire ai linguaggi di massa, a quella agenzia educativa, come usa dire oggi, che tutti ossessivamente considerano la sua principale antagonista: la televisione.

Il problema è che la scuola, e qui si vuol significare i suoi insegnanti, ha smesso da tempo il gusto elitario dell’ incontro con l’estraneo; con quei contenuti culturali, detta in maniera differente, che non appartengono alla media di quelli resi disponibili dalla società democratica e di cui quotidianamente fanno esperienza i ragazzi.

Né vale invocare a questo proposito l’indisponibilità degli studenti e delle loro famiglie. Come se gli insegnanti fossero dei marziani sulla terra e non partecipassero, molti di loro, dello stesso orizzonte piattamente consumistico dei loro allievi.

Una scuola che non crede più in sé stessa è fatta innanzitutto da uomini e donne che hanno smesso di credere nel proprio ufficio e nella propria missione e che sempre più, per giunta, se non si interviene seriamente sulle forme del reclutamento dei professori, portano nella scuola i tratti di una formazione culturale scadente e approssimativa.

Bisognerebbe prendere atto che le siss o sicsi o silsis che dir si voglia, vale a dire le scuole per la formazione degli insegnanti secondari, sono state un fallimento e che l’idea di farvi accedere gli studenti subito dopo la laurea triennale è pessima.

Se si cercano ragioni al perché il merito sia stato bandito dalla scuola italiana non bisogna andare molto lontano. Basta fermarsi un momento su questo miscuglio di sociologismo a buon mercato e di scelte istituzionali sbagliate. Finché si continuerà a pensare alla scuola come ad un’agenzia di socializzazione e alla sua struttura occupazionale come ad una macchina keynesiana a sostegno dei consumi sarà difficile parlare di merito e di selezione.

È il costo inevitabile della scuola di massa? Più la scolarità si diffonde più diminuisce la qualità media della scuola. Degli allievi e dei loro insegnanti. Così si dice di solito e così, spesso, si legge. Dalla loro, queste posizioni sembrano avere il conforto di un vasto processo di modernizzazione che accomunerebbe i destini del nostro sistema scolastico a quelli dei paesi più avanzati. Salvo dimenticare, però, che quei paesi hanno generalmente reagito alla massificazione dei sistemi scolastici, accentuando gli elementi di disuguaglianza nel sistema, oppure provando a custodire il tradizionale prestigio di alcune filiere educative.

Saremo anche come le altre democrazie occidentali, ma non abbiamo né il sistema delle grandi scuole francesi (sempre più insidiato tra l’altro), né, ormai più, le grandi università del mondo anglosassone. Abbiamo soltanto la scuola di massa, quella che dovrebbe assicurare integrazione e coesione sociale e che pure così spesso fallisce. Ma con questa scuola non si affronta l’innovazione, che richiede cultura e individualismo vale a dire i due bastioni della aborrita scuola liberale.

La scarsa attenzione pubblica per la qualità della scuola, per la qualità dei suoi insegnanti e delle cose che insegnano, è l’esito di due processi concomitanti: quello che Giulio Ferroni ha definito l’allargarsi dell’ area dell’indifferenza degli intellettuali italiani per le questioni scolastiche, da un lato; dall’altro, la conseguente espropriazione del discorso sulla scuola da parte di un ceto di professionali dell’educazione che ne ha fatto un terreno speciale della propria speculazione (in senso filosofico e non solo), a difesa del quale ha innalzato il muro di un linguaggio astruso e inconcludente che finisce per confinare il pubblico nello spazio anonimo e vagamente colpevolizzante dei non addetti ai lavori.

La scuola non è più affare di scrittori, poeti, filosofi, storici, umanisti che dir si voglia (un discorso a parte meriterebbe l’uso commerciale che della scuola fanno i nuovi generi della letteratura di consumo, da Federico Moccia a I liceali). Negli ultimi trent’anni è diventata invece geloso appannaggio di pedagogisti, sociologi, psicologi, antropologi, intenti per lo più a rivendicare i caratteri tecnici della loro consulenza. Basta guardare alla composizione delle commissioni ministeriali che nell’ultimo decennio, di volta in volta, si sono fatte carico di disegnare il profilo della fatidica “Riforma”. I presunti depositari del metodo vi hanno spadroneggiato.

In questo passaggio di consegne non si è prodotto quello, che un commentatore più entusiasta, definirebbe un aggiornamento delle categorie culturali. L’esito non è stato infatti pensare la scuola su basi differenti. Più semplicemente si è smesso di pensarla come un problema politicamente e culturalmente rilevante.

A nessuno viene più in mente di chiedere alla scuola cosa debba nutrire la formazione di un buon cittadino italiano. Spesso si è smesso di chiederle semplicemente di formare un cittadino capace di esprimere pensieri e sentimenti in buon italiano. Tutta l’attenzione si è invece spostata sulle tecniche. Dell’apprendimento, dell’insegnamento, della relazione didattica. Un trionfo del modo e delle procedure rispetto ai contenuti che ha portato ad una radicale destoricizzazione dell’istituzione scolastica e delle sue funzioni.

La scuola ha così smesso di pensarsi in relazione alla comunità statale-nazionale, per diventare un generico servizio micro comunitario di supporto e integrazione sociale. A fianco di altre agenzie e destinato, inevitabilmente, a subirne la concorrenza.

Cosa spiega questo cambiamento culturale e, in particolare, da dove è venuto alla cultura italiana questo atteggiamento che nei confronti della scuola e delle sue questioni mescola degnazione, snobismo, se non vero e proprio disprezzo?

Un po’ gli intellettuali italiani lo hanno ereditato dal passato questo atteggiamento, e con esso l’idea che la scuola stia irrimediabilmente dalla parte del conformismo ideologico e delle cose morte. Basti ricordare l’introduzione di Eco all’inchiesta condotta con Marisa Bonazzi sull’ ideologia dei libri di testo nella scuola elementare. Era il 1972 e il libro si intitolava I pampini bugiardi.

In che consisteva la menzogna della scuola? «La mistificazione della realtà – scriveva Eco – non è condotta attraverso una lettura, sia pure ideologica e falsamente ottimistica, delle società industriali avanzate, ma passando attraverso i rimasugli di un dannunzianesimo pre-industriale e agreste che, con la vita di oggi, non ha più nessuna connessione. Pampini, convolvoli, ranuncoli, refoli di vento, casette piccine piccine picciò, anemoni, pimpinelle, colibrì, vomeri, miglio, madie, princisbecchi e cuccume – ecco l’universo linguistico e immaginativo che viene presentato ai ragazzi come “La Realtà contemporanea”».

Che dire di questa minuziosa spigolatura? Forse quelle parole mentivano sulla «realtà contemporanea». Ma erano tante ricche e varie e permettevano una distanza dal mondo tutt’altro che irrilevante nella costruzione di un pensiero critico del mondo.

La loro abolizione ideologica ha condannato e condanna i nostri adolescenti ad una vita di pensieri imprecisi e di immagini opache del mondo.

Nella marginalizzazione della scuola nel nostro discorso pubblico molto pure ha contato un’altra convinzione, di cui facciamo tutt’ora fatica a sbarazzarci. L’idea, che alla fine degli anni Sessanta ha trovato una potente incarnazione nel vittimismo narcisista di Don Milani, e cioè che la scuola fosse colpevole, non già selettiva, ma intesa ad offendere la dignità delle classi popolari, gli esclusi, umiliati e offesi da innocue professoresse in tailleur grigio, filo di perle e belletto rosa sulle guance, sadicamente all’opera per mortificare i figli del popolo.

Valeva e vale la pena di impegnarsi per un oggetto così screditato?

Cause migliori invocavano e invocano l’ engagement dei nostri intellettuali.

Provo a dirlo così: l’imponenza dei numeri della scuola di massa e il bisogno di escogitare tecniche riparatorie in grado di compensare i meccanismi discriminatori della scuola di classe hanno sconsigliato ogni discorso che si provasse a parlare della scuola come luogo della formazione di una coscienza individuale in rapporto con la più vasta vita morale e intellettuale della comunità di cui faceva parte.

Questo è accaduto. Il processo ha impiegato quarant’anni a compiersi. Il risultato è oggi che la scuola compare sulle pagine dei giornali prevalentemente sotto la specie di fatti delinquenziali e di sindromi da stress. E questo a fronte di un approccio che privilegia in maniera ossessiva il versante educativo su quello della trasmissione del sapere.

Parole, certo. Tuttavia parole che descrivono cose e che alle cose finiscono per imporre ad esse la loro forma. È giunto il momento di imparare ad usarne altre.