Alunni stranieri:
distribuirli nelle scuole?

di Elio Gilberto Bettinelli ScuolaOggi, 15.6.2008

Da parte di rappresentanti locali di forze politiche diverse vengano avanzate proposte sul tema delle scuole con “troppi” alunni stranieri. Si parla di volta in volta di quote di scuola, numero chiuso, soglia massima, ridistribuzione, a seconda delle inclinazioni culturali e, vagamente, ideologiche dei proponenti. Ad esempio alcuni consiglieri comunali del Pdl di Torino, facenti riferimento ad Alleanza Nazionale, propongono il “numero chiuso” degli alunni stranieri nelle scuole della loro città. E’ una proposta che ha già serpeggiato qui e là negli anni scorsi e che potrebbe oggi trovare orecchie più attente o comunque essere spesa sul piano politico, così redditizio, della paura verso l’invasione straniera anche nelle scuole. Numero chiuso o numero massimo accettabile vengono proposte come soluzioni a situazioni critiche così delineate: gli alunni stranieri (senza distinzione di sorta fra nati in Italia e immigrati) sono un problema per la scuola perché richiedono interventi specifici che costano e nelle classi portano gli insegnanti a occuparsi di loro “rallentando” di fatto il programma degli alunni italiani. Insomma sono un aggravio che deve essere distribuito, rendendolo così meno oneroso per tutti. Sotto questo aspetto, la proposta parrebbe rivestire caratteri dell’equità, della distribuzione degli oneri. Viene tuttavia richiamato un altro tema che definirei identitario: il concentrarsi degli alunni stranieri in alcune scuole, fino a essere addirittura maggioranza, farebbe sentire gli italiani estranei a casa propria. Si tratterebbe allora di salvare i nostri bambini dalla marea straniera e di preservare l’identità culturale della nostra scuola, anche se qui avremmo qualche problema in seno alla attuali forze di maggioranza: identità nazionale italiana o padana? Ma c’è anche un versante, diciamo, “progressista” della questione e delle proposta che sottolinea l’utilità di una migliore distribuzione degli alunni stranieri ai fini dell’integrazione perché le scuole ad alta concentrazione straniera, rischiando di divenire di fatto ghetti separati, non favorirebbero questo importante obiettivo. Anzi, poiché tali scuole, “in sofferenza”, già esistono e di anno in anno vi si formano classi sempre più “straniere”, una ridistribuzione più o meno imposta sarebbe l’unica via.

Come realizzarla? Questa pare essere dunque la domanda che potrebbe far convergere attorno allo stesso ipotetico tavolo persone di diverso orientamento politico e ideologico. Proviamo allora a inoltrarci sulla via della fattibilità in cui vedremo emergere nodi e difficoltà derivanti dal considerare le proposte ridistributive come le sole possibili ed efficaci. Sono infatti convinto che esse si basano su una visione riduttiva e ben misera delle scuole e delle realtà sociali in cui sono inserite. In primo luogo non si distingue fra alunni stranieri immigrati, neo-arrivati, e alunni con percorso educativo italiano pregresso, magari iniziato fin dall’asilo nido: sono diversi i bisogni e le questioni che pongono alla scuola. I media sparano, è proprio il caso di dirlo, percentuali di alunni stranieri senza alcuna distinzione costruendo una corrispondenza fra loro presenza e scarsa qualità della scuola, proprio come avviene fra irregolari/clandestini e criminali. Gli alunni stranieri sono visti poi solamente come un onere e mai come bambini e ragazzi anche competenti, brillanti, carichi di energia, come sa qualsiasi insegnante che abbia una esperienza di qualche tempo. Si forma così una percezione sociale falsata e allarmata. Si ignora anche totalmente la progettualità della scuola, la sua capacità di dare risposte a bisogni differenziati e di coalizzare genitori e docenti in percorsi pluriennali e poliedrici condivisi; si ignorano le esperienze assai significative di scuole con alta percentuale di alunni stranieri ma di alta qualità educativa. Certo la struttura rigida della scuola statale e una certa “ottusità” della sua struttura amministrativa non favorisce e anzi impedisce progetti flessibili adeguati a situazioni specifiche di particolare sofferenza. Su questo piano occorrerebbe introdurre nuove possibilità nella gestione e nella chiamata del personale insegnante, nel supporto ai progetti di integrazione nelle zone ad altro flusso migratorio ecc.

Ma torniamo alla praticabilità della ridistribuzione. Innanzi tutto si dovrebbe definire la “soglia di accettabilità” della presenza straniera: Quale sarebbe la percentuale massima? Sulla base di quali indicatori definirla ? Dovremmo tener conto delle diverse provenienze? Vi sarebbero gruppi linguistici e nazionali meno “problematici” di altri? Istituiremmo una scala dell’integrabilità e della problematicità?

In secondo luogo si porrebbe il problema di come convogliare gli alunni stranieri “eccedenti” verso altre scuole. Semplicemente invitando i loro genitori a cercarsele, magari anche molto lontano dalla propria abitazione, facendo sorgere una sorta di popolazione scolastica itinerante? (Con il rischio di estendere in maniera incontrollata fenomeni, purtroppo già segnalati, di allontanamento e dirottamento di bambini e ragazzi stranieri da una scuola all’altra sulla base di ragioni non del tutto confessabili nascoste magari dietro la presunta” non preparazione dell’istituto scolastico ad accogliere” o la numerosità delle classi). Oppure si istituirebbero servizi di bus scolastici rinnovando così esperienze americane, fallite, risalenti agli anni sessanta trasportando gli stranieri da un quartiere all’altro? E come sarebbero accolti? In entrambi i casi si farebbe pagare agli alunni stranieri la loro non cittadinanza, sia sradicandoli dal territorio di residenza e dalle relazioni che vi si instaurano sia costringendoli a una pendolarismo giornaliero magari dalla più tenera infanzia, oltre che aiutare a confermare nell’opinione pubblica una visione che equipara straniero a problema.

Pensare alla ridistribuzione come alla Soluzione per eccellenza di una reale criticità – le scuole a forte polarizzazione – ci avvierebbe lungo percorsi sui quali nascerebbero ulteriori problemi quando non si farebbero a pezzi principi universali e diritti soggettivi che stanno alla base della nostra convivenza civile e democratica.

Sono tempi questi in cui i tornaconti anche di breve periodo della politica rischiano di invadere strumentalmente e con brutalità il territorio dell’educazione. Invece l’educazione e la scuola hanno bisogno di analisi, approfondimenti e ricerche che aiutino a comprendere le dinamiche di polarizzazione in atto, anche con l’impegno di università e altri istituti; di interventi reali di supporto alle scuole in situazione critica; di distinguere le percezioni, più o meno consapevolmente alimentate, dalla realtà; di una prospettiva valoriale fermamente integrativa e interculturale; di coinvolgimento di operatori scolastici e genitori, italiani e stranieri, in progetti comuni di scuola. Sarebbe in questo senso utile nelle città far incontrare i rappresentanti delle scuole “polarizzate” con gli amministratori locali e i responsabili dell’Amministrazione scolastica per cominciare a delineare le dimensioni del fenomeno e confrontare le risposte che già le scuole, collocate in quartieri “colorati” stanno mettendo in atto al fine di giungere a sottoscrivere “patti” e “protocolli” territoriali di impegno per l’integrazione scolastica e sociale dei minori stranieri. Essi dovrebbero ribadire senza dubbio la responsabilità dell’accoglienza degli alunni stranieri e la scelta di concordare misure condivise per evitare e il permanere di “scuole ghetto”.