Gli immigrati di seconda
generazione nel nostro Paese Un milione di "extra-bambini".
Nuovi Italiani Jenner Meletti, la Repubblica del 6/1/2008
SASSUOLO (Modena) È contenta, Souad Elkaddani. Nell'appartamento con cucina, sala e due camere da letto c'è già Amira, che proprio venerdì ha compiuto due anni. «Quando è nata lei, vivevo in casa con i miei genitori, qui a Sassuolo. Adesso vivo in questa casa che è mia e di mio marito Ahmed, che ha trentaquattro anni e fa il carrellista. Il nostro secondo figlio nasce a casa nostra e questo per me è importantissimo». Accarezza il pancione e ride pensando a quanto è accaduto l'altro giorno, quando la figlia Amira le ha chiesto come sarà il nuovo fratellino. «Io le ho comprato un bambolotto e le ho detto: "Amira, Zyad sarà grande così". Lei ha preso il bambolotto e l'ha buttato a terra. Poi mi ha abbracciata». È naturale, in queste ore prima della sala parto, fare confronti. «Rivivo la mia vita da bambina, il mio viaggio in Italia… Anche mio padre si chiama Ahmed ed è sempre stato un pioniere. È stato uno dei primi a lasciare la campagna per andare a vivere nella capitale marocchina, uno dei primi a lasciare il Marocco - nel 1984 - per cercare fortuna in Italia. E così io sono nata in una baraccopoli di Rabat». I primi ricordi. «Una strada sempre piena di polvere, le candele accese in una baracca senza luce elettrica, un rumore che non cessava mai e i secchi d'acqua che si dovevano riempire all'unica fontana». I giochi nella strada polverosa, poi i primi due anni di scuola elementare. «In classe eravamo in trenta. Ricordo bene lo haris, il guardiano che stava al cancello. Se arrivavi in ritardo, anche solo di un minuto, ti colpiva con un frustino. Poi tutti in fila per l'alzabandiera e l'inno nazionale». La telefonata di papà Ahmed arriva nel 1989, quando Souad ha otto anni. «Ci diceva di partire per l'Italia. Ricordo il treno per l'Algeria e la Tunisia, poi il traghetto. Mio padre era già deluso. Era convinto di riuscire a fare fortuna velocemente e invece dopo cinque anni non aveva ancora una casa. Faceva l'operaio e, finito il turno, anche il vu cumpra'. Ma non riusciva più a stare solo. Diceva che un'avventura così poteva continuarla solo assieme alla sua famiglia. Per farla breve, quando siamo arrivati, io, mia mamma Malika ed i miei due fratelli ci siamo trovato a dormire in un'auto, una Ritmo blu». I primi mesi a Formigine, per fortuna era estate. «L'auto era in un parco vicino alla fabbrica dove lavorava mio padre. "Se vedete la polizia", diceva papà, "scappate via". A volte ci spostavano sotto il ponte della Veggia, qui a Sassuolo. Mia madre cucinava con un fornello nel piazzale di una ceramica. Di notte si dormiva sulla Ritmo, tutti e cinque. Poi, in autunno, il primo colpo di fortuna. La parrocchia di don Bosco ci ha dato un appartamento. Don Romano e don Fernando, e anche tanti fedeli, ci aiutavano portando cibo e vestiti. E così ho potuto andare a scuola, in terza elementare, alla Giovanni Pascoli». Sul volto di Souad il sorriso scompare. «Proprio nei giorni scorsi mi chiedevo: perché non riesco a ricordare i volti dei miei compagni di classe? E allora mi sono ricordata: in terza e quarta non li ho mai visti. Non parlavo italiano e allora mi hanno messo in una stanzetta con l'insegnante di appoggio, la maestra Mara, che era bravissima. Io, lei e una bambina italiana che era handicappata. Le facce dei miei compagni di classe le ho viste solo in quinta, quando mi hanno dato un banco assieme agli altri bambini italiani». Come il papà, Souad Elkaddani è stata una pioniera. «Quando ho cominciato le elementari sono venuti a intervistarmi, perché ero la prima immigrata che entrava a scuola. La maestra Mara faceva da interprete». Anche i tre anni di scuola media, alla Primo Levi, non sono stati facili. «Erano pochissimi quelli che parlavano con me. Quando passavo vicino a un gruppetto, sentivo che dicevano "ecco la marocchina" e io mi mettevo a piangere perché capivo che "marocchina" voleva essere un insulto. E poi vedevo gli altri che uscivano assieme, si davano appuntamenti… Nascevano le prime coppiette. Io parlavo già bene l'italiano ma non vestivo alla moda, mettevo gli abiti usati che arrivavano a casa. Non avevo nemmeno i soldi per andare in gita. Un giorno ho preso il coraggio a due mani e ho fatto sapere a un ragazzo biondo e con gli occhi azzurri che mi sarebbe piaciuto parlare con lui. E lui, ad alta voce perché tutta la scuola fosse informata, ha detto: "Io, con quella scimmia lì? Immaginate che coppia!"». Un diploma in ragioneria, poi due anni di università, ad Economia. «Ho cominciato a essere felice negli ultimi anni delle superiori. Al mattino a scuola, il pomeriggio a lavorare, così avevo i primi soldi e mi sentivo autonoma. Ho fatto tanti mestieri: commessa da un fruttivendolo e poi in un negozio di abbigliamento. Ho fatto la pizzaiola e la gelataia e anche la barista. Questo lavoro non piaceva a mio papà. In Marocco non è vista bene una ragazza che lavora in un luogo frequentato da tanti uomini. Dopo il diploma ho lavorato come impiegata in una ceramica e poi nell'ufficio di un commercialista. Poi, tre anni fa, ho trovato il mio nuovo lavoro, proprio qui». «Qui» è l'ufficio stranieri della Cgil, dove Souad incontra gli immigrati che cercano un lavoro o vogliono sapere se la loro busta paga sia regolare. Souad è venuta a salutare Fatma, la ragazza turca che la sostituisce ora che è in maternità. Caffè e cioccolata al distributore automatico. «Souad», dicono Rocco Corvaglia, segretario della Cgil, e Norma Lugli, responsabile ufficio stranieri di Modena, «è stata la prima straniera ad entrare alla Pascoli e adesso in quella scuola il quarantacinque per cento dei bambini sono figli di immigrati. Sono tanti gli italiani che non accettano questa nuova realtà e portano i loro figli nelle scuole private. Gli stranieri, per loro, sono soltanto quelli che finiscono sui giornali per spaccio o per rissa. Non vedono quella grande maggioranza di lavoratori che in silenzio ogni mattina entrano in ceramica, nei cantieri o nelle stalle della collina. Protestano, giustamente, contro il degrado, ma non contro gli italiani che affittano monolocali di venticinque metri quadri a seicentocinquanta euro al mese». Sul volto di Souad torna il sorriso, perché si parla di culla da sistemare e di preparativi per il parto. «Io mi sento sassolese e italiana ma non dimentico - ne sono orgogliosa - di essere marocchina. Abbiamo certe tradizioni e voglio rispettarle. Forse sono anche superstizioni, ma vallo a spiegare a mia mamma Malika. Lei dice che nei primi giorni il neonato non può dormire in una stanza da solo, che accanto a lui deve esserci sempre un adulto per mandare via gli spiriti cattivi. Che per quaranta giorni dopo la nascita nessun estraneo alla famiglia deve vedere il bambino… Questi non sono problemi gravi, li ho già affrontati quando è nata Amira. La cosa importante è che Zyad non abbia una vita legata a un permesso di soggiorno». Con la Bossi-Fini succedono cose strane. «Nemmeno nella mia famiglia abbiamo gli stessi diritti. Mio padre ha chiesto la cittadinanza italiana, e l'ha ottenuta, quando io ed i miei due fratelli nati in Marocco eravamo già maggiorenni. Qui in Italia i miei genitori hanno avuto altri due figli che sono diventati italiani, automaticamente perché ancora minorenni, assieme a mio padre. E così io sono marocchina come mia madre e i due fratelli grandi, mio padre è italiano come i due fratelli piccoli. Mio figlio Zyad potrà diventare italiano se io otterrò la cittadinanza italiana. Se faccio domanda adesso, avrò una risposta fra tre o quattro anni. Altrimenti Zyad e Amira dovranno fare domanda quando compiranno i diciotto anni». Il sindaco, Graziano Pattuzzi, è pronto a dare il benvenuto al nuovo cittadino numero un milione. «Sassuolo è da sempre terra di immigrazione. Negli anni Cinquanta sono arrivati i montanari modenesi, negli anni Sessanta le famiglie del Sud. Solo da Irsina, vicino a Matera, con il boom delle ceramiche sono arrivate settemila persone. È vero, in alcune scuole ci sono tensioni per l'alto numero di studenti immigrati, ma la scuola è il luogo più importante per la conoscenza reciproca e l'integrazione. Se parli con un sassolese, ti dice che il suo collega di lavoro più bravo è straniero e che il suo vicino di casa più simpatico arriva dall'Africa. Ma quando gli "stranieri" sono soltanto un numero, si creano la diffidenza e la paura. Il nostro lavoro è fare capire che dietro quei numeri ci sono in gran parte i vicini di casa o i compagni di lavoro che hanno un nome, un cognome e una faccia conosciuta».
Aspettando Zyad, la
mamma Souad si sente più sicura. «Quando è nata la bambina, mio marito
non aveva ancora trovato un lavoro fisso. Ora abbiamo due stipendi,
come tante famiglie italiane, e questa è una buona base di partenza
per i nostri figli. Non voglio che Zyad e Amira incontrino le stesse
difficoltà che ho trovato io. Appena potranno capire, racconterò loro
che "marocchino" non è un insulto. Dirò che il Marocco è il Paese dove
sono nati i genitori e i nonni, venuti a cercare una vita migliore,
anche per loro. Io ricordo bene la Ritmo blu che era la nostra casa e
quella stanzetta alla scuola elementare. Ricordo i sussurri e le
occhiate dei miei compagni alle medie e quel ragazzo che mi chiamava
"scimmia". I miei figli partono con una marcia in più. Non permetterò
a nessuno di considerarli soltanto futura manodopera. Sono bambini che
diventeranno uomini. Io sarò al loro fianco. Spero che siano bravi,
che si impegnino nello studio. "Avvocato Zyad", "dottoressa Amira".
Non è un bel sogno?». |