Sul vocabolario non esistono, ma nelle scuole
sì.
A differenza dei maschi, però, feriscono con parole e sguardi
Ma sì, chiamatele bulle.
Andrea Benedetti, la Repubblica
dell'11/1/2008
Ci sono parole che nascono col pregiudizio incorporato. Che pretendono
di descrivere la realtà escludendone un'ampia fetta già in partenza.
Bullo, ad esempio. Un termine che evoca mondi e comportamenti
prettamente maschili - il branco, l'esercizio del potere, la
sopraffazione, la violenza fisica - e che in italiano non contempla
neppure il genere femminile. Provate a digitare bulla sul vostro
programma di videoscrittura e verrà marchiata all'istante dall'infamia
ortografica di una sottolineatura rossa. Il vocabolario non la
registra, dunque ufficialmente non esiste.
Ma i vocabolari sono macchine lente. Così lente che mentre i
lessicografi organizzano ponderose riunioni per decidere se concedere
o meno il permesso di soggiorno a una determinata voce, il concetto è
già ampiamente penetrato nell'uso e ha messo su casa nella coscienza
linguistica delle persone.
Succede così che, mentre la parola bulla aspetta ancora di uscire
dalla clandestinità ed essere regolarizzata, le bulle sono già da
tempo diventate una piaga sociale non meno preoccupante di quanto lo
siano i bulli maschi.
Basterebbe l'esperienza a dimostrarlo, ma per ogni evenienza lo
confermano anche le statistiche. L'ultima, realizzata dalla Società
Italiana di Pediatria su un campione di 1.200 studenti delle scuole
medie, racconta che il 64% degli intervistati non ritiene il bullismo
una prerogativa esclusivamente maschile, bensì un flagello unisex.
È, quello femminile, un bullismo sottile, subdolo, intellettualizzato.
È un bullismo che non ha bisogno dell'abuso fisico per essere
spietato, che non finisce su YouTube o sui telegiornali, che non
provoca provvedimenti ministeriali né sanzioni disciplinari da parte
delle scuole. È un bullismo che c'è ma non si vede, di cui si sa ma
non si parla, che lascia intatto il corpo ma intossica l'animo.
Rimangono, rispetto alla versione maschile, alcune costanti universali
legate ai ruoli (una vittima e uno o più carnefici), all'età
(soprattutto adolescenti e preadolescenti) e al contesto (in genere la
scuola). Cambiano però armi, campo di battaglia e strategie.
La prima cosa a ferire, quando una donna o una ragazzetta decidono di
fare del male, è la parola. Che non ha neppure bisogno di essere
pronunciata per offendere e per umiliare. Basta nasconderla in un
sussurro, in un pettegolezzo, in un foglietto ripiegato, in un mezzo
sorriso: immaginarla, per la vittima, può essere più doloroso che
ascoltarla o leggerla. Denunciarla, invece, sarebbe semplicemente
impossibile.
Poi c'è lo sguardo. Una rasoiata insolente che fende il cuore di chi
la riceve come un colpo d'accetta. Chi non è in grado di reggerlo, chi
abbassa le palpebre, chi si volta dall'altra parte come quando viene
colpito da un raggio di sole improvviso e abbagliante, ha già perduto
un pezzo della guerra. Sui manuali di self help si dice di non cedere,
di non far finta di niente, di provare a restituirlo, ma chiunque sia
stato almeno una volta in minoranza all'interno di un gruppo sa quanto
sia difficile affrontare un muro di occhi ostili senza sentirsi
annodare la gola.
Infine c'è il sorriso. Che però non è mai un sorriso, ma una maschera.
Guai a lasciarsi ammaliare da quel travestimento, a confonderlo con
un'offerta di armistizio e a ricambiarlo con un altro sorriso, magari
un po' troppo docile e accogliente: la bulla in questione ti
risponderà deformando la fila composta e cordiale di denti in un
ghigno o una risata sguaiata, e a quel punto sarà la disfatta.
La vittima della bulla, in genere, è anche lei una ragazzina; una
ragazzina che, da buona vittima, subisce, e più subisce più rimane
inchiodata al suo ruolo, incapace di reagire, di ribellarsi, anche
solo di raccontare. Tanto, anche se lo facesse, non potrebbe
dimostrare nulla, ribattere nulla, risolvere nulla. Avventurarsi a
chiedere spiegazioni significherebbe esporsi all'ulteriore schiaffo di
una beffarda smentita, magari avvelenata dalla contraccusa di
narcisismo per aver anche solo immaginato - inguaribile sfigata - che
altri potessero perdere tempo a parlare di lei.
Nell'imbuto di frustrazione e isolamento in cui precipita, spesso la
vittima riesce persino a sentirsi in colpa, scivolando ancor più sulla
china dell'amor proprio e abbandonandosi a un destino che è quello di
tutto il genere femminile. Perché le donne si saranno anche
emancipate, saranno anche riuscite a emergere sul lavoro e nella vita
sociale, avranno anche liberato quella carica aggressiva rimasta
impigliata per millenni nella ragnatela delle convenzioni sociali, ma
sovente continuano a portarsi appresso, mischiato al codice genetico,
l'atavico gravame culturale di non sentirsi all'altezza.
Spesso non c'è un motivo preciso per cui la vittima diventa una
vittima. L'insicurezza, certo. Ma anche l'improvviso e casuale
innescarsi di una dinamica perversa all'interno del gruppo, dentro il
quale si formano grumi di socialità che spesso sono fondati su
un'emarginazione, sulla confortevole percezione di appartenere a
qualcosa a cui gli altri non hanno accesso. È la logica del branco, ed
è una logica che funziona solo se c'è qualcuno che, per una scelta del
tutto arbitraria, non ne fa parte.
Di questi branchi, le ragazze non sono soltanto silenziose complici,
ma spesso si convertono in leader a tutti gli effetti, trascinando con
sé personalità più deboli, che magari hanno alle spalle un passato di
vittime e a un certo punto trovano un ruolo e una legittimazione
sociale nella sottomissione al capo.
Rispetto al paradigma di Dan Olweus (il primo a formalizzare negli
anni Settanta caratteri e dinamiche del bullismo) e, soprattutto,
rispetto alla lettura "patologica" che ne fanno sistematicamente
politica e istituzioni, gli studi sul fenomeno al femminile rivelano
una realtà più complessa, in cui convergono fattori sociali, etologici
e di genere.
Da questo punto di vista, la bulla non è soltanto la scoria umana e
sociale prodotta da una famiglia troppo permissiva o troppo difficile,
ma è anche, e soprattutto, un indizio. Un indizio del fatto che le
donne - tutte le donne, non solo le ragazzine - una volta completato
il recupero della loro fase istintuale, possono scoprire un giorno di
essere cattive, di voler fare del male, persino di saper uccidere.
È, in fondo, l'esito ineluttabile di ogni processo di conoscenza, al
termine del quale, da Edipo in avanti, si trova sempre il pozzo
profondo dell'essere. Quella ragazzina che umilia, calunnia e
annichilisce la compagna di banco non lo ha ancora scoperto. Ma presto
ci arriverà anche lei.