Vado a studiare all'estero
e non torno più.
Ogni anno 40 mila studenti lasciano l’Italia
Raffaello Masci, La Stampa del
11.2.2008
ROMA
All’estero Si può: si può studiare meglio, si può fare carriera, si
può lavorare senza essere raccomandati, si fa un precariato che non è
sottoccupazione, si passa prima ad un impiego ben retribuito. E così
sono sempre di più i giovani italiani che danno il loro «addio ai
monti» senza nostalgie e senza lacrime.
«L’attuale situazione di incertezza e di confusione che attraversa il
Paese - spiega Giuseppe Roma, direttore del Censis che a questo
fenomeno ha dedicato un focus - sta provocando una fatale attrazione
verso l’estero. Gli imprenditori negli ultimi anni hanno risollevato
l’andamento del Pil attraverso le esportazioni, ma soprattutto
insediandosi in mercati stranieri, accettando le regole e gli standard
internazionali. Altrettanto vale per i giovani, sia durante la fase
formativa sia in quella lavorativa. La dequalificazione delle
università italiane produce nei giovani più intraprendenti una forte
spinta a studiare all’estero».
I numeri non sono ancora stratosferici, ma indicano una tendenza forte
e inarrestabile. Intanto all’estero studiano ormai, sia pur per brevi
periodi, il 14% dei ragazzi italiani tra i 15 e i 29 anni, una
percentuale che sfiora il 30% (29,8) se riferita solo a universitari.
Il programma Erasmus di questo fenomeno costituisce solo un segmento,
tuttavia in forte espansione: sono meno di 20 mila gli studenti
universitari che vi partecipano ogni anno, un numero limitato al basso
budget investito (13 milioni circa), ma sono tantissimi se paragonati
ai 220 di 20 anni fa.
«Gli studenti - commenta il vicepresidente esecutivo della Luiss
Attilio Oliva - vedono all’estero università che funzionano, che
investono, che fanno bene ricerca, che valorizzano i talenti. E’
questa la grande attrattiva che richiama oltreconfine. E sarebbe un
bene se fosse solo sprovincializzazione, ma si rivela un preoccupante
segnale se indica solo, come credo, una sfiducia nelle nostre
università».
E il fenomeno, per la verità, sembra proprio essere questo, al punto
che quasi 40 mila studenti (38.700) decidono ogni anno di non fare
proprio l'università in Italia e andare direttamente all’estero:
Germania, soprattutto, ma anche Austria, Inghilterra, Svizzera,
Francia, Stati Uniti e, con percentuali sempre crescenti, Spagna. Da
qui a decidere di lavorare poi in un Paese straniero, il passo è
breve, e lo compiono il 4% dei neolaureati italiani. Gli stipendi
d’ingresso all’estero sono in media superiori a quelli italiani del
30% (il 43% è tra i 1300 e i 1700 euro quando da noi sono sotto i
1000). E, a parità di precariato (circa un terzo del totale dei
neoassunti) i laureati italiani all’estero vengono collocati su
livelli mediamente più alti dei loro colleghi restati in patria
(quadri o funzionari). Senza dire che fuori da qui si aprono
prospettive anche per quei laureati che da noi hanno poco mercato: il
34% dei neodottori italiani all’estero, infatti, proviene da facoltà
umanistiche, seguiti dai laureati in discipline economiche (28%) e
giuridico-sociali (19%). Poi - ma questo era prevedibile -
gettonatissimi sono gli ingegneri e i laureati nelle scienze pure.
Perché lì hanno successo e qui da noi no? Una risposta, secondo i dati
Censis, è nella valorizzazione della meritocrazia (altro grande
fattore di richiamo): il 22,4% dei nostri concittadini espatriati dice
di aver trovato lavoro con una semplice inserzione, mentre da noi una
percentuale analoga va riferita ai posti ottenuti tramite «conoscenze
amicali o parentali».
Stiamo assistendo ad una fuga di cervelli? No, rassicura il Censis,
all’estero vanno ragazzi preparati nella media: il loro profilo
formativo non si differenzia da quello di chi ha scelto come luogo di
lavoro l’Italia, sebbene tra i primi risulti leggermente più elevata
la quota di laureati in corso (22,1% contro il 18,6% dei secondi) e
con il massimo dei voti (32,2% contro il 26,2%). «Fin tanto che il
fenomeno è di dimensioni contenute - commenta Oliva -, questa apertura
all’estero mi sembra fisiologica e riferibile soprattutto ad una élite
sociale ed economica. Mi preoccupa, semmai, il dato di tendenza, che
esprime una crescente sfiducia dei nostri giovani nei confronti del
nostro sistema universitario».
«L’offerta formativa universitaria - conclude Giuseppe Roma - in
Italia si è moltiplicata di numero, ma le buone facoltà si contano
sulle dita di una mano. L’accademia si provincializza, mentre i
giovani che non vogliono cadere nella spirale del precariato hanno
capito che devono studiare in un ambiente di alto livello e ben
inserito in circuiti internazionali. Prima si andava all’estero per
prendere un master o un PhD. Ora, si inizia dal primo anno di
università. Magari non facendo più ritorno in Italia».