La scuola italiana e i docenti «sformati».

Marina Boscaino da l'Unità dell'8.2.2008

 

Che la scuola abbia responsabilità innegabili rispetto ai fallimenti adolescenziali è argomento ormai unanimemente condiviso dagli ospiti di ogni talk show che si rispetti: state pur sicuri che - quando la colpa non è di un extracomunitario - c’è sempre lo zampino di un insegnante inadempiente. È vero che la classe docente italiana non fa nulla per nascondere i propri scheletri nell’armadio; ma è anche vero che un investimento convinto e una maggiore volontà di riconoscere la professionalità ridimensionerebbero i fenomeni di malcostume che pure esistono, esaltando la molte eccellenze.

In questo contesto il problema di come si debbano formare gli insegnanti appare strategico. Perché solo attraverso una revisione accorta, equa e autorevole dei sistemi di accesso e di reclutamento alla scuola si potrà ripensare a questo come a un lavoro non di ripiego o come al delirio autoreferenziale di sognatori nostalgici (e poveri in canna). La domanda è banalmente: perché un laureato in fisica dovrebbe decidere di andare ad insegnare quella disciplina in un istituto superiore a 1300 euro al mese?

Fino agli anni ’80 ci si laureava e poi si conseguiva una o più abilitazioni tramite concorso pubblico. Dal 1990, quando la laurea è diventata obbligatoria anche per gli insegnanti di scuole dell’infanzia e primaria (Scienze della Formazione Primaria), è iniziato un inesauribile processo che ha visto l’università sempre più coinvolta nel dibattito sulla formazione. L’università ha assunto la facoltà di abilitare per l’insegnamento ed inoltre di erogare un consistente tirocinio (le famose Siss, Scuole di specializzazione), attivando un notevole giro d’affari per gli atenei e disparità vergognose tra una Siss e l’altra (con conseguente differenza di preparazione dei relativi aspiranti).

In seguito a questa situazione si è configurata una condizione piuttosto penosa: innanzitutto i concorsi sono continuati - contemporaneamente all’erogazione delle abilitazioni da parte delle Siss fino al ’90 - configurando di fatto due diversi sistemi a cui accedere alle graduatorie: vincitori di concorso da una parte (che andavano ad aumentare le nutrite schiere dei precari «storici») e «sissini» dall’altra; un pasticcio che ha intasato le graduatorie, fatto sorgere non pochi contenziosi, rinfocolato la «guerra tra poveri» in una professione alla quale si accede in media definitivamente verso i 40 anni. Difensori dei «regolari» e dei precari storici hanno fronteggiato i sissini in una contesa che ha coinvolto - soprattutto nei primi anni - giuristi e accademici. A rendere la situazione ancor più confusa è poi giunta la riforma del 3+2 dell’allora ministro dell’università Ortensio Zecchino (laurea breve e laurea specialistica, Dm 509/99). Fu quella riforma, in particolare, a spostare i termini del problema: sovrapponendosi alla soppressione dei concorsi pubblici e inserendosi nell’ambito degli scenari configurati dalle Siss, si arrivò ad affidare definitivamente l’abilitazione all’insegnamento agli atenei, facendola coincidere con la laurea, che poi doveva essere seguita dalla scuola di specializzazione. Poi, ancora, la Moratti rispariglia le carte: il 3+2 viene ora considerato laurea «magistrale», con tre anni di «preparazione generale» e due di «specializzazione».

Oggi, da una parte assistiamo con soddisfazione alla sospensione dell’art. 5 della «controriforma» Moratti, che aveva concepito la formazione di una laurea solo per insegnanti. Dall’altra - con altrettanta soddisfazione - ascoltiamo il ministro Fioroni sostenere la necessità di ripristinare i concorsi pubblici a scadenza biennale per i posti disponibili, secondo il principio costituzionale che al pubblico impiego si accede per concorso. Sì, perché non bisogna dimenticare come la precedente stagione politica avesse a più riprese tentato di sostenere il discriminatorio principio della «chiamata diretta»: della serie ti chiamo solo se hai gli occhi azzurri, voti a destra, sei bianco, possibilmente hai un accento del Nord, vai a messa tutte le domeniche.

A parte gli scherzi - come è accaduto per secoli nelle scuole private - il sistema delle clientele l’avrebbe fatta da padrone; in barba al principio della libertà dell’insegnamento e della laicità della scuola pubblica.

Rimangono però alcuni nodi irrisolti. Innanzitutto la tentazione da parte di moltissimi di considerare oggi il 3+2 (ma alcuni insegnamenti universitari prevedono già un percorso di 5 anni) esauriente; riducendo l’attuale percorso 5+2 (laurea specialistica più scuola di specializzazione): quasi a dire che i nostri insegnanti sono tanto preparati che ridurre il curricolo a 3 anni di studio delle discipline può essere sufficiente; e che diventeranno insegnanti competenti frequentando i 2 anni di specializzazione. Gli attuali corsi della Siss - fatte le debite distinzioni, profondamente e negativamente funzionali alla vita accademica, sottobosco in perenne crisi di sopravvivenza, specie in alcuni atenei - sono irriformabili.

Ma quand’anche non fosse così - considerando la profonda crisi anche di legittimazione socioculturale e di autorevolezza in cui si dibatte il lavoro del docente - crediamo davvero che per insegnare sia sufficiente (in un mondo improntato alla cifra della complessità e della diversità) questo tipo di formazione? La scuola oggi stenta ad integrare e funziona in maniera scomposta non perchè gli insegnanti siano troppo colti, ma per il motivo opposto. Alcuni sono ignoranti; altri non conoscono cosa sia la mediazione culturale e processuale, altri ancora non hanno una relazione emotiva con i discenti. Elementi, gli ultimi due, che qualunque fase della formazione accennata in questo rapido excursus ha o completamente ignorato o colpevolmente rimosso, quasi si trattasse di una alternativa ai saperi disciplinari. Mentre si tratta di due elementi entrambi indispensabili, se affrontati con serietà, convinzione e autorevolezza.

Solo un maestro autorevole, preparato e in grado di stabilire una relazione di potere costruttiva e autonomizzante con i propri discenti può rappresentare una garanzia di riproduzione culturale, di libertà critica.

Una proposta alternativa e convincente a questa è rappresentata da 5 anni di università, concorso a cattedra (che abilita); accesso seguente alla specializzazione (600 ore affidate alla scuola). La proposta è suggestiva, ma si scontra con una serie di vincoli pratici ed impliciti: smantellare il potere degli atenei nel campo della formazione pare impresa ardua, come negargli la facoltà di erogare abilitazioni; restituire alla scuola una funzione attiva primaria nella formazione iniziale è pertanto altrettanto difficile; il profilo culturale dell’insegnante continua ad essere definito per contratto (il sindacato è infatti contrario ad una legge che definisca lo status giuridico dei docenti); una rifondazione del sapere, un paradossale «imparare a disapprendere», che rappresenti il mandato culturale dell’insegnante del XXI secolo, con annesse revisioni di paradigmi epistemologici e culturali, nonché una riflessione intensa sul profilo della mediazione e della cura, appaiono lontani dall’essere solo concepiti. Infine si evita una valorizzazione della formazione in itinere.

E invece sono questi gli elementi che renderebbero possibile invertire la tendenza alla progressiva perdita di senso del nostro lavoro.

E costruire, per il futuro, una scuola realmente a misura di mondo.