Anticipiamo un brano del libro di Daniel Pennac
"Diario di scuola"
Io, Pennac la Repubblica del 20.2.2008
DANIEL PENNAC Mi rivolge uno sguardo preoccupato e, lentamente: "Che cosa fai nella vita?". Il mio avvenire le parve da subito talmente compromesso che non è mai stata davvero sicura del mio presente. Poiché non ero destinato a un avvenire, non le parevo equipaggiato per durare. Ero il suo figlio precario. Eppure sapeva che ce l'avevo fatta da quando nel settembre del 1969 ero entrato nella mia prima classe in qualità di professore. Ma nei decenni che seguirono (cioè per tutta la durata della mia vita adulta), la sua ansia resistette segretamente a tutte le "dimostrazioni di successo" che le portavano le mie telefonate, le mie lettere, le mie visite, la pubblicazione dei miei libri, gli articoli di giornale o le mie apparizioni nei programmi culturali della tivù. Né la stabilità della mia vita professionale né il riconoscimento del mio lavoro letterario, nulla di ciò che sentiva dire su di me da terzi o che poteva leggere sui giornali era in grado di rassicurarla del tutto. Certo, si rallegrava dei miei successi, ne parlava con gli amici, conveniva che mio padre, morto prima di conoscerli, ne sarebbe stato felice, ma nel segreto del suo cuore sopravviveva l'ansia suscitata dal cattivo studente degli inizi. Così si esprimeva il suo amore di madre; quando la stuzzicavo sulle delizie dell'ansia materna, lei rispondeva a tono con una battuta degna di Woody Allen: "Che vuoi farci, non tutte le ebree sono madri, ma tutte le madri sono ebree".
Insomma, andavo male a scuola. Ogni sera della mia infanzia tornavo a casa perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l'ultimo della classe, ero il penultimo. (Evviva!) Refrattario dapprima all'aritmetica, poi alla matematica, profondamente disortografico, poco incline alla memorizzazione delle date e alla localizzazione dei luoghi geografici, inadatto all'apprendimento delle lingue straniere, ritenuto pigro (lezioni non studiate, compiti non fatti), portavo a casa risultati pessimi che non erano riscattati né dalla musica, né dallo sport né peraltro da alcuna attività parascolastica. "Capisci? Capisci o no quello che ti spiego?" Non capivo. Questa inattitudine a capire aveva radici così lontane che la famiglia aveva immaginato una leggenda per datarne le origini: il mio apprendimento dell'alfabeto. Ho sempre sentito dire che mi ci era voluto un anno intero per imparare la lettera a. La lettera a, in un anno. Il deserto della mia ignoranza cominciava al di là dell'invalicabile b. "Niente panico, tra ventisei anni padroneggerà perfettamente l'alfabeto." Così ironizzava mio padre per esorcizzare i suoi stessi timori. Molti anni dopo, mentre ripetevo l'ultimo anno delle superiori inseguendo un diploma di maturità che si ostinava a sfuggirmi, farà questa battuta: "Non preoccuparti, anche per la maturità alla fine si acquisiscono degli automatismi...". O, nel settembre del 1968, quando ho avuto finalmente in tasca la mia laurea in lettere: "Ti ci è voluta una rivoluzione per la laurea, dobbiamo temere una guerra mondiale per il dottorato?". Detto senza alcuna particolare malignità. Era la nostra forma di complicità. Mio padre e io abbiamo optato molto presto per il sorriso.
Ma torniamo ai miei
inizi. Ultimogenito di quattro fratelli, ero un caso a parte. I miei
genitori non avevano avuto occasione di fare pratica con i miei
fratelli maggiori, la cui carriera scolastica, seppur non
eccezionalmente brillante, si era svolta senza intoppi. A quanto pareva, tutti capivano più in fretta di me. "Ma sei proprio duro di comprendonio!" Un pomeriggio dell'anno della maturità (uno degli anni della maturità), mentre mio padre mi spiegava trigonometria nella stanza che fungeva da biblioteca, il nostro cane venne quatto quatto a mettersi sul letto dietro di noi. Appena individuato, fu seccamente mandato via: "Fila di là, cane, sulla tua poltrona!". Cinque minuti dopo, il cane era di nuovo sul letto. Ma si era preso la briga di andare a recuperare la vecchia coperta che proteggeva la sua poltrona e vi si era steso sopra. Ammirazione generale, ovviamente, e giustificata: tanto di cappello a un animale in grado di associare un divieto all'idea astratta di pulizia e trarne la conclusione che occorresse farsi la cuccia per godere della compagnia dei padroni, con un vero e proprio ragionamento! Fu un argomento di conversazione che in famiglia durò per anni. Personalmente, ne trassi l'insegnamento che anche il cane di casa afferrava più in fretta di me. Credo di avergli bisbigliato all'orecchio: "Domani ci vai tu a scuola, leccaculo!". Due signori di una certa età passeggiano sulla riva del Loup, il fiume della loro infanzia. Due fratelli. Mio fratello Bernard e io. Mezzo secolo prima, si tuffavano in quella trasparenza. Nuotavano fra i cavedani per nulla spaventati dalla loro cagnara. La familiarità dei pesci faceva pensare che quella felicità sarebbe durata per sempre. Il fiume scorreva tra le pareti di roccia. Quando i due fratelli lo seguivano fino al mare, ora trascinati dalla corrente, ora arrancando sui sassi, capitava che si perdessero di vista. Per ritrovarsi, avevano imparato a fischiare con le dita. Lunghe stridulazioni che si ripercuotevano contro le rocce. Oggi l'acqua si è abbassata, i pesci sono scomparsi, una schiuma viscida e stagnante proclama la vittoria del detersivo sulla natura. Della nostra infanzia resta solo il canto delle cicale e il calore resinoso del sole. E poi sappiamo ancora fischiare con le dita; non ci siamo mai persi d'orecchio. Annuncio a Bernard che ho in mente di scrivere un libro sulla scuola: non sulla scuola che cambia nella società che cambia, come è cambiato questo fiume ma, nel cuore di questo incessante rivolgimento, su ciò che per l'appunto non cambia mai, su una costante di cui non sento mai parlare: la sofferenza condivisa del somaro, dei genitori e degli insegnanti, l'interazione di questi patemi scolastici. "Progetto ambizioso... E come lo affronterai?" "Torchiando te, per esempio. Che ricordi hai delle mie difficoltà, diciamo... in matematica?" Mio fratello Bernard era l'unico membro della mia famiglia a potermi aiutare nei compiti senza che io mi chiudessi come un riccio. Abbiamo diviso la stessa stanza finché non sono entrato in seconda media, quando mi hanno messo in collegio. "In matematica? Hai cominciato con l'aritmetica, sai! Un giorno ti ho chiesto cosa fare di una frazione che avevi davanti agli occhi. Mi hai risposto meccanicamente: ‘Bisogna trovare il comune denominatore'. C'era una sola frazione, quindi un solo denominatore, ma tu non demordevi: ‘Bisogna trovare il comune denominatore! Siccome io insistevo: ‘Rifletti un po', Daniel, qui c'è una sola frazione, quindi un solo denominatore', tu ti sei incavolato: ‘L'ha detto il maestro: nelle frazioni bisogna trovare il comune denominatore! '".
E i due signori
sorridono, continuando la loro passeggiata. Tutto ciò è molto lontano.
Uno dei due è stato insegnante per venticinque anni:
duemilacinquecento allievi, su per giù, di cui un certo numero
"gravemente carenti", secondo l'espressione in uso. Ed entrambi sono
padri. " Il prof ha detto che..."è una frase che conoscono. Sì, la
speranza riposta dal somaro in quella litania...Le parole del
professore sono solo tronchi galleggianti cui lo studente che va male
si aggrappa in un fiume dove la corrente lo trascina verso le cascate. "..." "Un altro libro sulla scuola, insomma? Non credi che ce ne siano abbastanza?" "Non sulla scuola! Tutti si occupano della scuola, eterna disputa degli antichi e dei moderni: i suoi programmi, il suo ruolo sociale, le sue finalità, la scuola di ieri, quella di domani... No, un libro sul somaro! Sulla sofferenza di non capire, e i suoi danni collaterali." "È stato così terribile?" "..." "..." "Puoi dirmi qualcos'altro sul somaro che ero?" "Ti lamentavi di non avere memoria. Le lezioni che ti facevo studiare la sera svanivano durante la notte. L'indomani mattina avevi dimenticato tutto."
Il fatto è che non
registravo, come dicono i ragazzi di oggi. Non ero connesso e non
registravo. |