Per l'Istat siamo in coda alla Ue di Francesco Piccioni da il manifesto dell'8.2.2008
I luoghi comuni sono stucchevoli. Soprattutto quelli del «pensiero unico» secondo cui la spesa pubblica sarebbe troppo sbilanciata - e quindi insostenibile - a favore delle prestazioni sociali di massa (sanità, istruzione, previdenza). Giunge perciò a proposito la pubblicazione dell'indagine Istat sulla «Spesa delle amministrazioni pubbliche per funzione». Che comincia a chiarire alcuni passaggi, dandone una spiegazione basata sui fatti. Ad esempio, è certamente vero che «il periodo 2000-2006 e caratterizzato da un andamento crescente della spesa in rapporto al Pil, che passa dal 46,2% del 2000 al 50,5% del 2006». Ma se non si rammenta - come invece l'Istat fa - che nel 2000 ci fu un'entrata straordinaria «non ripetibile», come la «concessione delle licenze Umts», non si capisce più nulla. Quella vendita, infatti, portò in cassa 13,8 miliardi di euro che, secondo le regole dei conti nazionali, «va registrata come una minore uscita in conto capitale». In parole povere, la spesa 2000 sarebbe stata registrata - altrimenti - nella percentuale del 47,4% sul Pil.
Similmente, ma sul versante opposto, la spesa
del 2006 ha risentito di altre «poste straordinarie» - stavolta come
maggiori uscite - a causa dei «rimborsi Iva sulle auto aziendali»
(come conseguenza di una sentenza europea), della cancellazione dei
crediti dello stato nei confronti delle società Tav e altre poste
minori. Senza di ciò, la spesa 2006 sarebbe stata molto meno
deficitaria (48,5%) e grosso modo in linea con quella degli anni
precedenti. Una voce squilibrante è certamente quella degli «oneri sul debito pubblico», che ci vede sovraesposti al pari di Grecia e Belgio, paesi con alto deficit e che pagano perciò molti interessi. Ma è sulla spesa sociale che troviamo le «sorprese» più illuminanti. La tanto bistrattata sanità pubblica - che pure soffre di uscite gigantesche a favore delle strutture private (si pensi solo alle prestazioni o ai ricoveri «in convenzione») - pesa per il 13%. Praticamente la media Ue, oscillante tra un massimo del 15% (il Portogallo) e un minimo del 9% (Olanda e Grecia). Peggio ancora va per l'istruzione, cui l'Italia dedica il 10% della spesa; ai livelli più bassi del continente (ci superano in discesa sola la Grecia e la certo più efficiente Germani, con il 9%), mentre il Portogallo brilla per considerazione della formazione (16%). E non va certamente meglio nel campo accidentato della «protezione sociale», cui il nostro paese dedica il 37% della spesa pubblica. Ben al di sotto della materna Germania (addirittura il 46%), ma in ogni caso molto a di sotto della media europea (41%).
Ma almeno siamo pacifisti!, dirà qualcuno.
Errore. La media Ue per la spesa assegnata a «difesa e ordine
pubblico» oscilla intorno al 6,5%. Qui, in effetti, riusciamo a fare
un po' meglio, assestandoci al 7%. Uno scarto non molto rilevante,
siamo d'accordo. Ma insieme agli altri dati restituisce comunque lo
scenario delle vere preoccupazioni di una classe politica nel corso
del tempo. |