Università: tagli ad un sistema
sotto-finanziato

Giovanni Vertova* La Stampa, 4.12.2008

Una vera e auspicata riforma dell’Università dovrebbe essere una proposta articolata del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (Miur), non del Ministero dell’Economia e Finanze (Mef). Dovrebbe basarsi su un’analisi completa e dettagliata del sistema e delle sue criticità, non inseguire articoli di qualche opinionista di grido. Dovrebbe essere improntata ad un’ottica di miglioramento, non di punizione. Dovrebbe confrontarsi con le parti sociali. Il governo è molto lontano da questo modus operandi, preferendo procedere a colpi di decreti leggi approvati con la fiducia. L’ultimo, cronologicamente parlando, è quello n. 180 del 10 novembre.

Finora gli atti di questo governo relativi all’università sono i pochi articoli contenuti nella legge 133/08 e il D.L. 180. Comune ad entrambi i provvedimenti è la riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo). Mentre la prima lo riduceva di 1.441,5 milioni di euro nei prossimi 5 anni, il secondo diminuisce il taglio a 949,5 milioni. L’alibi utilizzato è la necessità di ridurre gli sprechi e di razionalizzare il sistema. Nella lotta dei numeri che dovrebbero dimostrare l’inefficienza del sistema (troppe sedi distaccate, troppi corsi con pochi studenti, troppo personale docente e non docente), pochi hanno ricordato un fatto fondamentale: qualunque indicatore venga assunto, il sistema universitario italiano è largamente sotto-finanziato e, in queste condizioni, ogni ragionamento credibile sulla sua qualità è pura retorica.

Nel 2005 (ultimi dati disponibili) la spesa pubblica per l’istruzione universitaria italiana è stata pari allo 0,76% del Pil, a fronte di una media europea (dell’Europa dei 27, quindi includendo gli ex paesi a socialismo reale) dell’1,15%. Questo valore raggiunge l’1,33 nel caso degli Usa e l’1,21 negli Uk (entrambi superiori alla media). Inoltre, sempre nel 2005, in Italia, la spesa pubblica per l’istruzione universitaria è stata pari all’1,6% del totale della spesa pubblica, a fronte di una media Ocse del 3,0%. In questo caso, il valore degli Usa è pari al 3,5% e quello degli Uk al 2,7%. Il confronto internazionale dimostra che perfino i paesi che si pretendono più “liberisti” e il cui modello universitario viene propagandato come più “efficiente” del nostro, superano l’Italia in termini di finanziamenti pubblici all’università.

Prima di urlare allo scandalo per lo spreco di soldi pubblici, sarebbe il caso di scandalizzarsi per l’ammontare assolutamente esiguo dei finanziamenti a disposizione degli Atenei. Troppo spesso si confonde la causa con l’effetto: offerte formative di dubbia qualità e aperture di sedi staccate (assolutamente inutili) in centri periferici non sono la ragione dello spreco di soldi pubblici, ma il prodotto della loro insufficienza. Il meccanismo prevede, giustamente, che l’Ffo sia fissato centralmente dallo stato e poi ripartito tra le diverse sedi, principalmente sulla base del numero degli studenti iscritti. Con un Ffo insufficiente e in continua diminuzione, le sedi per sopravvivere sono costrette ad andare alla caccia di studenti con offerte formative “fantasiose” e sedi periferiche “sotto casa”.

Intanto, nello stesso momento in cui si riducono i finanziamenti pubblici, si permette agli Atenei di trasformarsi in fondazioni private. I due provvedimenti sono collegati in un rapporto non casuale, rispondendo in realtà ad una medesima logica: portare a conclusione la liquidazione del ruolo pubblico dell’università, avviata dai governi precedenti; aprire le porte ai privati, con l’illusoria speranza che la riduzione dei soldi pubblici sia compensata dai capitali privati. Si crede, probabilmente, che questi ultimi investirebbero solo nelle “migliori” università, mercificando cultura, conoscenza e istruzione pubblica.

E’ un momento alquanto bizzarro per mostrare fiducia nelle virtù miracolose della “mano invisibile” del mercato. Anche questa proposta dimentica, comunque, due fatti fondamentali. I privati investono in misura irrisoria negli Atenei statali: nel 2005 il loro contributo è stato dell’1,9% del totale delle entrate. E in ogni caso, escludendo le tasse universitarie, i privati finanziano poco anche gli Atenei non statali, che sono sovvenzionati da soldi pubblici: nel 2004, i finanziamenti pubblici hanno coperto il 53,8% del totale delle entrate, le tasse studentesche il 27,5%.

I dati qui presentati (tutti liberamente scaricabili dal sito www.giovannavertova.it/ materiali.htm) evidenziano i punti più critici dei provvedimenti governativi in campo. Il sistema universitario italiano è sotto-finanziato. Qualsiasi proposta di riforma deve partire da questo fatto incontrovertibile, anche se questo non vuol dire che i pochi soldi pubblici debbano essere spesi male. Per mio conto, sono convinta che il sistema universitario debba restare pubblico. Chi ne propone la privatizzazione ha comunque l’obbligo di tener conto di una realtà italiana dove perfino gli Atenei non statali dipendono dai soldi pubblici.


* Economista e ricercatrice all'Università di Bergamo