«Ora basta con il liceo a tutti i costi».

Il 70% degli studenti delle superiori ha registrato
almeno un «debito» al termine del primo quadrimestre

Lorenzo Salvia Il Corriere della Sera del 5.4.2008

 

ROMA — E noi in Italia come siamo messi? Siamo pronti a vivere in un mondo che potrebbe anche regalarci nuovi posti di lavoro ma solo a patto di essere più qualificati? Per una volta imprese e sindacati sono d'accordo. Non su tutto, per carità. Ma su un punto sì. Alberto Barcella — presidente della commissione scuola e impresa formativa di Confindustria — e Agostino Megale — presidente dell'Ires, l'Istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil — usano quasi le stesse parole. Si concentrano sugli anni che arrivano prima dell'ingresso nel mondo del lavoro: scuola e università. E sostengono che bisogna puntare sugli istituti tecnici superiori, per anni ridotti a scuole di serie B dall'inarrestabile moda del "tutti al liceo". E sulle facoltà scientifiche — da Ingegneria a Chimica, da Fisica a Matematica — anche queste a lungo figlie di un dio minore rispetto a Lettere, Scienze politiche e al boom degli ultimi anni, Scienze della Comunicazione.

«Purtroppo — dice Barcella per Confindustria — non siamo pronti perché il nostro sistema scolastico ha per anni svantaggiato gli istituti tecnici in favore dei licei generalisti. E questo è un grave errore perché toglie al Paese quelle competenze specialistiche che saranno sempre più necessarie per competere». In parte è un problema di libera scelta dei ragazzi, una moda che forse viene da lontano, dagli anni in cui il liceo era un sogno che non tutti potevano permettersi. Ma non solo. «Ricordo qui a Bergamo — dice ancora Barcella — 30 anni fa l'Istituto tecnico Paleocapa aveva uno scambio con le aziende della zona che oggi, pure con gli stage, ce lo sogniamo».
Qualcosa si muove, in realtà. Nel 2006, per la prima volta, si è fermato il calo delle iscrizioni sia negli istituti tecnici sia nelle facoltà scientifiche. Non basta, ma è un primo passo. «È il problema numero uno — concorda Megale, presidente dell'Istituto di ricerche della Cgil — e bisogna fare di più. Ma la responsabilità non è solo della scuola, delle università e dei ragazzi». È agli stipendi, e quindi alle imprese che li pagano, che guarda Megale. Uno studio completato poche settimane fa dal suo istituto dice che investire in formazione non fa bene alla busta paga: «A 35 anni— spiega Megale — un laureato in Ingegneria guadagna qualcosa in meno di un operaio specializzato che ha cominciato a lavorare a 15 anni. Giusto premiare lo sforzo fisico, ma anche il fattore della competenza deve avere il suo riconoscimento salariale, perché questa è l'unico incentivo che funziona davvero. E invece nell'ultimo decennio, almeno una parte delle imprese italiane, ha insistito solo sulla competitività dei costi e sulla precarietà». Preparati ma non troppo, dunque: imprenditori e sindacati sono d'accordo. Ma cosa potrebbe succedere a un'Italia incapace di cambiare marcia? «Già oggi — dice ancora Megale — la nostra produttività è più bassa rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna non perché lavoriamo meno ma perché le competenze non vengono valorizzate. Se non ci adeguiamo c'è poco da fare, saremo sempre meno competitivi». Su questo punto, invece, gli imprenditori la pensano diversamente. «Nell'economia globalizzata — dice Barcella per Confindustria — non circolano solo le merci ma anche le persone. E allora esporteremo psicologi e scienziati della comunicazione e importeremo fisici e biologi. Magari dall'India dove sono preparati, costano poco e parlano pure inglese». Le aziende sarebbero a posto. Gli italiani un po' meno.