Focus Ai
confini dell’Europa
Italiani, bocciati in inglese.
Sei su dieci non sono in grado di sostenere una
conversazione
E il 30% degli studenti ha un debito in questa materia
Monica Ricci Sargentini Il Corriere della Sera,
29.8.2008
Sudori freddi, crisi di panico, balbettii
inconsulti. Sostenere una
conversazione in una lingua straniera è ancora una missione
impossibile per sei italiani su dieci. Un dato sconfortante in un
mondo ormai globalizzato che ci pone al terzultimo posto tra i Paesi
dell’Unione Europea. Dietro di noi, secondo l’ultima ricerca
condotta da Eurobarometro, ci sono solo irlandesi e britannici. E la
situazione non migliora con il passar del tempo. Anzi. Se si
confrontano i dati del 2001 con quelli del 2006 si scopre che gli
italiani in grado di sostenere una conversazione in una lingua
straniera sono passati dal 46% al 41%, a fronte di una media Ue del
50%, che sale a oltre il 90% per molte nazioni del Nordeuropa. Anche
l’indagine condotta dal Censis per il progetto Let it Fly («Learning
education and training in the foreign languages in Italy») indica
che gli italiani le lingue le studiano (il 66,2%) ma non le parlano.
Il 50,1%, infatti, confessa di averne una conoscenza solo
«scolastica», il 23,9% la definisce «buona» e solo il 7,1% «molto
buona». «Il quadro è veramente triste — dice Giuseppe Roma,
direttore generale del Censis —perché conoscere l’inglese a livello
scolastico significa non poterlo parlare. Purtroppo in Italia le
lingue non le sappiamo insegnare, abbiamo una scuola tutta
incentrata sui contenuti. Invece bisognerebbe cercare di trasmettere
un metodo».
Se a questo si aggiunge lo scivolone
del Ministero della Pubblica istruzione
che all’ultima maturità ha presentato una traccia per la prova di
inglese piena di errori da matita blu, il dubbio che la scarsa
conoscenza delle lingue in Italia non sia dovuta alla pigrizia dei
suoi cittadini diventa quasi una certezza. Qualcosa non funziona nel
percorso didattico. «C’è scarsa connessione tra i vari cicli della
scuola — spiega Ruggero Druetta, ricercatore all’Università di
Torino nella facoltà di Economia —. La mancanza di continuità e la
disomogeneità portano a ricominciare sempre da zero». Il risultato è
che 13 anni di studi, dalla scuola primaria a quella superiore, non
permettono di padroneggiare una lingua. Lo confermano gli ultimi
dati forniti dal Ministero guidato da Mariastella Gelmini: dopo la
matematica, l’inglese è la nostra seconda bestia nera. Nel 2008 sono
stati il 30,6% gli alunni che hanno chiuso l’anno con un debito in
questa materia. A mettere i puntini sulle «i», lo scorso marzo, è
stata la Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Lingue e
letterature straniere che ha parlato di una vera e propria
emergenza: «In Italia si ritiene — si legge in un comunicato — che
la competenza comunicativa internazionale si possa esaurire con una
rudimentale o mediocre conoscenza di un inglese basilare per di più
sovente lontano da scorrevolezza e pronuncia accettabili».
Il nostro Paese, tra l’altro, ha
largamente disatteso le indicazioni della Comunità europea
che, dalla Convenzione di Lisbona del 1997, chiede agli Stati membri
di promuovere il plurilinguismo, ovvero l’insegnamento di almeno due
lingue comunitarie oltre quella madre. Noi, invece, puntiamo (e
male) solo sull’inglese tanto che, nel 2005, l’allora ministro della
Pubblica istruzione Letizia Moratti ha stabilito che tutta la quota
oraria destinata all’insegnamento delle lingue straniere nella
scuola secondaria potesse essere dedicata interamente alla lingua di
Shakespeare. «In realtà—spiega Silvia Diegoli dell’associazione per
l’insegnamento della lingua francese (Anilf)—dalla primaria fino
alla superiore, se lei scorre qualsiasi indirizzo, gli studenti
studiano una e una sola lingua straniera. Non ci si rende conto che
questa è una carta che gioca a sfavore dei nostri ragazzi rispetto a
quelli degli altri Paesi». I problemi cominciano sin dalle
elementari. «Nelle scuole primarie — dice ancora Diegoli —
l’insegnamento avviene in modo estemporaneo e lacunoso. Prima
c’erano i maestri specializzati che facevano un corso abilitante,
ora tanti si sono messi a insegnare la lingua pur avendo competenze
approssimative ».
Attualmente
i posti in organico per gli specialisti di lingua alle elementari
sono 11.100 di cui soltanto 41 per
il francese e 7 per il tedesco. Questi insegnanti coprono 97 mila
delle 137.598 classi italiane ma ancora per poco perché la tendenza
oggi è quella di avere un maestro generalista che, grazie a un corso
di sole 500 ore, si metta ad insegnare l’inglese ai bambini. Con
quali risultati? «È più un danno che altro—dice Barbara Evangelista,
48 anni, insegnante ventennale di inglese, oggi in forza al liceo
classico romano Vivona —, a volte sono meglio gli alunni che la
lingua nella primaria non l’hanno proprio fatta. Perché correggere
difetti di pronuncia e abitudini sbagliate è più difficile che
partire da zero». I professori di lingue lamentano le scarse
risorse: «Al Vivona — dice ancora Evangelista — non abbiamo un
laboratorio linguistico. E poi tre ore a settimana sono poche,
soprattutto quando si introduce anche l’insegnamento della
letteratura ».
Un altro problema è quello delle
classi numerose, 28 o 29 alunni in
media. «L’ideale — spiega Evangelista— sarebbe avere un lettore di
madrelingua di supporto. Sulla carta la possibilità esiste ma,
quando insegnavo al liceo scientifico Primo Levi, l’abbiamo chiesto
per 12 anni senza successo». La carenza di fondi è paurosa. «A
livello del personale docente — dice ancora Druetta — non c’è
formazione pedagogica, si punta più su un percorso culturale e
letterario. La didattica della lingua straniera richiede di essere
svolta in piccoli gruppi ma ciò comporterebbe un grande numero di
lettori di madrelingua ad affiancare i docenti. Questo avrebbe un
costo certamente rilevante, cui andrebbero aggiunti altri
investimenti per i laboratori linguistici. Diversamente i nostri
studenti non potranno mai essere competitivi con i coetanei
europei». Purtroppo in molte facoltà universitarie l’apprendimento
delle lingue è ridotto ad una singola prova di idoneità o è del
tutto assente, col risultato che, secondo le società di ricerca del
personale, soltanto il 30-40% dei candidati risponde al livello di
conoscenza dell’inglese ormai richiesto dalle aziende. Per invertire
la tendenza ci vorrebbe un drastico cambio di marcia.