Linea di confine. Mario Pirani la Repubblica, 10/9/2007
Su questa rubrica le critiche sono di casa, eppur tuttavia quando si verificano eventi positivi vorrei che i lettori se ne accorgessero, anche se, adusi al peggio, riflettono una specie di incredula ritrosia a dedicare attenzione alle cose buone. Così in questi giorni tra la guerra ai lavavetri e il festival delle chiacchiere politiche messo in scena per una settimana a Telese può anche essere che il vento di benefiche novità che investe le scuole italiane alla loro riapertura non sia stato colto in tutta la sua rilevanza. Certo i giornali hanno dato spazio alle misure contro i professori assenteisti o al ritorno della tavola pitagorica ma assieme a questo c'è ben altro. In primo luogo viene introdotto l'obbligo scolastico a 16 anni per tutti, un obbiettivo posto da Bottai fin dal 1939, ma mai realizzato. Anzi con l'ultimo centro destra si era tornati indietro perché Letizia Moratti lo aveva riportato a 14 anni, cancellando l'innalzamento a 15 anni introdotto da Berlinguer. Ora il governo Prodi ce l'ha fatta attraverso un articolo alla Finanziaria che entra in vigore in questi giorni. Il ministero della P. I. ha in concomitanza diramato una direttiva che delinea, al di là dei programmi dei singoli istituti, i contenuti culturali irrinunciabili dell'insegnamento impartito a tutti i ragazzi dai 14 ai 16 anni, siano essi iscritti al liceo classico o alla scuola alberghiera, al conservatorio o ai corsi professionali. Al primo posto viene l'italiano con l'obbiettivo di «far acquisire allo studente la padronanza della lingua come ricezione e come produzione, scritta e parlata. « Una rivoluzione dopo decenni di tolleranza verso ogni vilipendio della ortografia, della grammatica e della sintassi». Finora una falsa idea di eguaglianza ha, infatti, permesso che la lingua venisse bistrattata, sostituita al massimo dal linguaggio degli sms. Questo ha favorito l'irrigidirsi, come mai prima d'ora, della verticalità sociale, per cui solo i figli dei colti benestanti vanno in alto e gli altri sono destinati fin dai banche scolastici a restare in basso. Non accettare questo destino, riportando in auge l'italiano, la matematica, la storia, le scienze, lo studio dell'arte e, per la prima volta, della musica è quanto (oltre agli «assi culturali» per il biennio delle Superiori) le Indicazioni per la scuola dell'infanzia e per il primo ciclo d'istruzione si propongono.
Soprattutto dalle
Indicazioni si evince che, dopo decenni di tsunami pseudo riformista,
il ministro Fioroni e la sua efficiente vice, Mariangela Bastico,
hanno compreso che le sciancate strutture dell'insegnamento pubblico
avevano urgente necessità di un intervento ricostruttivo e di un
recupero dello studio, non come "gradevole" optional ma altresì come
fatica. Con l'ausilio di una commissione di esperti, presieduta
dall'epistemologo Mario Ceruti, non dominata come per il passato dai
soli pedagogisti ma composta anche da docenti delle varie discipline e
da personaggi con grande esperienza pedagogica sul campo, come
l'inventore dei "maestri di strada", Marco Rossi Doria, il ministro ha
presentato le Indicazioni, i decreti, le direttive che specificano
misure per un primo biennio di sperimentazione di questa nuova fase di
ritorno all'ordine, al buon senso e alla serietà dello studio. Ha
anche reintrodotto il tempo pieno, pur nel limite degli organici
fissati nella Finanziaria, il che ha suscitato il fisiologico mugugno
sindacale. Pochi, però, hanno notato un'altra novità di rilievo. Fino
a ieri i programmi erano presentati in tempi e modi diversi per i vari
cicli. Ora, per la prima volta, sono concepiti in una unica visione
organica per gli alunni dai 3 ai 14 anni. In questo quadro, ad
esempio, lo studio della Storia e, in particolare, quella del
Novecento cui è dedicato in esclusiva il terzo anno della Secondaria,
torna ad assumere il necessario impatto. Indietro tutta, con prudenza
e saggio empirismo sembra essere la filosofia ispiratrice per sanare
quella che Aldo Schiavone in un intelligente e autocritico articolo su
Repubblica (6/9 us) ha definito una vera e propria degenerazione che a
partire dagli anni Settanta ha trasformato la grande idea democratica
della scuola di massa in «un soffocante appiattimento conformista,
nella sindacalizzazione grottesca di ogni rapporto educativo,
nell'ostilità preconcetta verso ogni valutazione... che hanno
rovesciato quella che era stata concepita come una conquista per i più
deboli, in una trappola micidiale soprattutto per i giovani
socialmente più fragili che credono di imparare e si ritrovano senza
pensieri, senza metodo, senza parole, senza niente di niente se non
un'inservibile poltiglia». |