Dossier: Quando il Libro Bianco sembra Nero .

 a cura di Daniele Checchi da La Voce del 21/9/2007

 

INDICE GENERALE DELL'ARTICOLO

pg. 1

Introduzione di Daniele Checchi

pg. 2

Classifiche dettate dal contesto, di Massimiliano Bratti, Daniele Checchi, Antonio Filippin 21-09-2007

pg. 3

Alla scuola di qualità non bastano le risorse, di Massimiliano Bratti, Daniele Checchi e Antonio Filippin 21-09-2007

pg. 4

I conti fatti senza i bambini stranieri, di Francesco Billari 21-09-2007

pg. 5

La giostra degli insegnanti, di Paolo Sestito* 21-09-2007

pg. 6

Se la selezione resta fuori dall'aula, di Andrea Ichino 21-09-2007

pg. 7

Imparare a ragionare. A Nord come a Sud, di Salvatore Modica 21-09-2007

pg. 8

Il Quaderno promuove la valutazione. Con qualche riserva, di Bruno Losito 21-09-2007

Il Quaderno Bianco

Introduzione

di Daniele Checchi

Dopo il libro verde arriva il libro bianco sulla scuola. A doppia firma del Ministero della Pubblica Istruzione e del Ministero dell'Economia. Impietosa è la radiografia della situazione sui risultati. Esiste un divario enorme di competenze tra studenti del Nord e del Sud Italia, non spiegabile soltanto dal divario di risorse. Per la pianificazione dell’istruzione pubblica bisogna tenere conto anche del crescente numero di studenti stranieri. Un aspetto non irrilevante è legato alla motivazione dei docenti. Meglio un decentramento delle decisioni in tema di immissioni concorsuali. Tuttavia nessuna incentivazione credibile è possibile in assenza della possibilità di valutare il lavoro svolto dagli insegnanti. Nè d'altronde un sistema di valutazione può essere creato dall'oggi al domani, specialmente se si vuole affiancare una azione di sostegno alle scuole in maggiore difficoltà.


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Classifiche dettate dal contesto

 di Massimiliano Bratti, Daniele Checchi, Antonio Filippin 21-09-2007

Il Quaderno bianco sulla Scuola, pubblicato a cura del ministero della Pubblica istruzione e del ministero dell’Economia e delle Finanze, avanza una serie di proposte per il miglioramento della qualità della scuola italiana, definita come "il settore che farà la differenza fra ripresa o stagnazione della mobilità sociale e della produttività" nel nostro paese.

I divari territoriali nelle competenze e le classifiche

Lo stesso Quaderno osserva correttamente che non si dovrebbe parlare genericamente di "scuola italiana" perché la sua qualità risulta assai diversificata sul territorio nazionale. Va qui precisato che la "qualità", a torto o a ragione, è quella che viene misurata da indagini internazionali sulle competenze degli studenti, come l’indagine Pisa - Programme for International Student Assessment - gestita dall’Ocse, o da esercizi di valutazione realizzati all’interno del nostro paese, come quello dell’Invalsi, l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione.
I divari geografici risultano particolarmente preoccupanti per la caratteristica prevalentemente pubblica e centralizzata del nostro sistema di istruzione, dove ad esempio i meccanismi di allocazione della spesa e di reclutamento e fissazione delle retribuzioni degli insegnanti, che potrebbero influenzare la qualità del corpo docente, sono, salvo rarissime eccezioni, gli stessi su tutto il territorio nazionale. È allora interessante domandarsi le ragioni dell’esistenza e del permanere dei divari di competenza, particolarmente ampi tra Nord e Sud.
Abbiamo cercato di indagare alcuni fattori che risultano correlati con le differenze geografiche nell’indagine Pisa. Lo scopo è individuare alcune possibili direzioni di ricerca, da approfondire in futuro, per stabilire se tali fattori possano essere considerati come le determinanti dei divari. Vale la pena di ricordare che Pisa ha come soggetto di indagine gli studenti quindicenni e come oggetto le conoscenza per la vita. Si riferisce in sostanza alla capacità di utilizzare le proprie conoscenze per risolvere i problemi della vita quotidiana (competenze). Come osservato dall’Ocse, queste competenze non vengono acquisite solo a scuola, ma in una pluralità di contesti, ad esempio in famiglia o nelle interazioni con i pari. Per questa ragione non tutte le differenze nei livelli di competenze sono attribuibili al sistema scolastico. Detto in altri termini, non è corretto inferire una classifica dell’efficacia dei sistemi scolastici regionali (o provinciali) semplicemente utilizzando i dati grezzi Pisa. Questi dovrebbero essere depurati da tutti i fattori individuali, familiari, socio-economici che risultano correlati con le competenze. Se si considerano le competenze in matematica (mathematical literacy), il focus principale di Pisa 2003, vediamo come esse non siano omogeneamente distribuite nel territorio italiano. (1)
La figura mostra la distribuzione per quintili del punteggio medio Pisa in matematica per le province italiane, costruita a partire dai dati grezzi: è evidente come i quintili più alti (quelli più scuri) siano localizzati soprattutto al Nord. Un rapido colpo d’occhio è sufficiente per osservare che se tale mappa venisse utilizzata per costruire una classifica delle province (o delle Regioni italiane), le province (Regioni) del Sud si collocherebbero sistematicamente nella parte bassa, facendoci erroneamente concludere che lì il sistema di istruzione risulta particolarmente inefficace.

Figura Quintili della distribuzione dei punteggi grezzi Pisa 2003 in matematica


Lo stesso
Quaderno osserva correttamente che non si dovrebbe parlare genericamente di "scuola italiana" perché la sua qualità risulta assai diversificata sul territorio nazionale. Va qui precisato che la "qualità", a torto o a ragione, è quella che viene misurata da indagini internazionali sulle competenze degli studenti, come l’indagine Pisa - Programme for International Student Assessment - gestita dall’Ocse, o da esercizi di valutazione realizzati all’interno del nostro paese, come quello dell’Invalsi, l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione.
I
divari geografici risultano particolarmente preoccupanti per la caratteristica prevalentemente pubblica e centralizzata del nostro sistema di istruzione, dove ad esempio i meccanismi di allocazione della spesa e di reclutamento e fissazione delle retribuzioni degli insegnanti, che potrebbero influenzare la qualità del corpo docente, sono, salvo rarissime eccezioni, gli stessi su tutto il territorio nazionale. È allora interessante domandarsi le ragioni dell’esistenza e del permanere dei divari di competenza, particolarmente ampi tra Nord e Sud.
Abbiamo cercato di indagare alcuni fattori che risultano
correlati con le differenze geografiche nell’indagine Pisa. Lo scopo è individuare alcune possibili direzioni di ricerca, da approfondire in futuro, per stabilire se tali fattori possano essere considerati come le determinanti dei divari. Vale la pena di ricordare che Pisa ha come soggetto di indagine gli studenti quindicenni e come oggetto le conoscenza per la vita. Si riferisce in sostanza alla capacità di utilizzare le proprie conoscenze per risolvere i problemi della vita quotidiana (competenze). Come osservato dall’Ocse, queste competenze non vengono acquisite solo a scuola, ma in una pluralità di contesti, ad esempio in famiglia o nelle interazioni con i pari. Per questa ragione non tutte le differenze nei livelli di competenze sono attribuibili al sistema scolastico. Detto in altri termini, non è corretto inferire una classifica dell’efficacia dei sistemi scolastici regionali (o provinciali) semplicemente utilizzando i dati grezzi Pisa. Questi dovrebbero essere depurati da tutti i fattori individuali, familiari, socio-economici che risultano correlati con le competenze. Se si considerano le competenze in matematica (mathematical literacy), il focus principale di Pisa 2003, vediamo come esse non siano omogeneamente distribuite nel territorio italiano. (1)
La
figura mostra la distribuzione per quintili del punteggio medio Pisa in matematica per le province italiane, costruita a partire dai dati grezzi: è evidente come i quintili più alti (quelli più scuri) siano localizzati soprattutto al Nord. Un rapido colpo d’occhio è sufficiente per osservare che se tale mappa venisse utilizzata per costruire una classifica delle province (o delle Regioni italiane), le province (Regioni) del Sud si collocherebbero sistematicamente nella parte bassa, facendoci erroneamente concludere che lì il sistema di istruzione risulta particolarmente inefficace.

I fattori di contesto

Tuttavia, ha senso confrontare i punteggi grezzi? La risposta è no. Province e regioni italiane sono contraddistinte da notevoli differenze in termini di caratteristiche individuali e di background familiare degli studenti (ad esempio l’istruzione e l’occupazione dei genitori), delle scuole (dotazione infrastrutturale, stato di manutenzione degli edifici) e socio-economiche del territorio (tassi di disoccupazione, estensione dell’economia sommersa). Tutti questi fattori contribuiscono ovviamente all’acquisizione di competenze da parte degli studenti e pertanto un confronto geografico dovrebbe essere fatto solo "a parità di condizioni", o come anche si dice confrontando gli eguali (comparing like with like). Ebbene, quando si tenga conto di tutti questi fattori di contesto, la figura cambia in maniera radicale, ed emergono buoni livelli di competenze anche al Sud. Se questi dati aggiustati venissero allora utilizzati per redigere una classifica nazionale, il Sud di certo non sfigurerebbe, mostrando come gli studenti che pure partono da minori dotazioni individuali e scolastiche e da peggiori condizioni socio-economiche, facciano forse anche relativamente meglio rispetto ai loro colleghi del Nord.

Le politiche dell’istruzione

Fatto sta che dal piano della descrizione dell’evidenza empirica occorre passare poi a quello dell’azione, per rimuovere o compensare i fattori di contesto che sono all’origine delle differenze nei punteggi grezzi, ovvero nelle competenze degli studenti. Tuttavia, prima di cimentarsi in suggerimenti di policy occorrerebbe a nostro avviso lavorare almeno su un doppio binario: 1) arricchire Pisa di un questionario relativo ai docenti: dovrebbe raccogliere informazioni sulle pratiche e le caratteristiche del corpo docente, che riteniamo abbia un’importanza centrale nella formazione delle competenze. Nelle precedenti indagini, informazioni di questo genere sono state chieste solo ai dirigenti scolastici. 2) Garantire una più ampia diffusione dell’ottica della valutazione (e non solo in ambito scolastico), a partire dalle sperimentazioni scolastiche, che troppo raramente vengono fatte, o dalle riforme complessive (sarebbe meglio dire tentativi di riforma) che si susseguono nel nostro paese, prima ancora che vi sia stato il tempo sufficiente di applicare, valutare e giudicare la "bontà" di quelle precedentemente introdotte, in termini oggettivi e non puramente ideologici.

 

Per saperne di più
Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) Da dove vengono le competenze degli studenti? Bologna: Il Mulino - (forthcoming).
Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) "Territorial Differences in Italian Students’ Mathematical Competencies: Evidence from Pisa 2003", IZA Discussion Paper No. 2603 (February), – Bonn: IZA.

 

(1) Le competenze sono misurate da un punteggio la cui media a livello Ocse è stata normalizzata a 500 e deviazione standard a 100.


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Alla scuola di qualità non bastano le risorse

di Massimiliano Bratti, Daniele Checchi e Antonio Filippin 21-09-2007

Le variabili solitamente utilizzate nella letteratura economica per approssimare le risorse investite nella scuola sono la spesa per studente, il rapporto studenti/insegnanti e la numerosità delle classi. Il loro ruolo nell’influenzare il rendimento degli studenti è oggetto di aspre controversie fin dal 1966, quando negli Usa è stato elaborato il rapporto Coleman per spiegare i peggiori rendimenti scolastici che caratterizzavano alcune minoranze. Da allora, si sono susseguiti centinaia di contributi che, basandosi su metodologie non sperimentali, sono arrivati a conclusioni molto diverse tra loro. Per questo motivo, alcuni autori hanno scritto rassegne che avevano l'obiettivo di sintetizzare l'imponente mole di lavori disponibili. Tuttavia, anche le rassegne hanno raggiunto conclusioni opposte, in base al modo utilizzato per sintetizzare i contributi esistenti. Tutto ciò la dice lunga su quanto controverso sia il ruolo delle risorse.

Risorse e risultati

Ci sono anche ragioni teoriche che possono spiegare il fatto che non si trovi una relazione robusta tra risorse e risultati. Prendiamo la numerosità delle classi, ad esempio: una relazione negativa tra dimensioni delle classi e performance degli studenti potrebbe essere mascherata dal fatto che l'allocazione degli studenti in classi grandi o piccole non è casuale. Se gli studenti "peggiori" risultano concentrati con maggiore probabilità in classi di dimensioni ridotte, quelle più numerose possono anche risultare migliori. Recentemente, alcuni studi hanno fornito evidenza sperimentale sull’argomento e sembra esistere un effetto positivo, sebbene debole. Nel Tennessee l’esperimento Star ha assegnato in modo casuale una coorte di studenti, e i relativi insegnanti, a classi di diverse dimensioni: i risultati in test standardizzati sono migliorati di circa il 4 per cento durante il primo anno in cui gli studenti sono inseriti in classi più piccole, e dell’1 per cento in ciascun anno successivo. (1)
Pur in presenza di voci a volte molto discordanti, il dibattito in letteratura avviene in un ambito delimitato da alcuni punti fermi:

1) Un meccanismo automatico che leghi maggiori risorse investite nella scuola a migliori rendimenti degli studenti è tutt’altro che ovvio.

2) Anche gli autori che si mostrano più scettici sul ruolo delle risorse scolastiche non si spingono ad affermare che investire nella scuola sia inutile.

Il caso Italia

Il primo punto trova in Italia una immediata conferma. Come ben documentato nel Quaderno bianco sulla scuola (parte I, par. 4.2), l’Italia spende per l’istruzione più della media dei paesi Ocse. Particolarmente elevata risulta la spesa per il personale, in virtù dell’alto rapporto insegnanti/studenti. Ciò è dovuto, da un lato, al maggior impegno orario degli studenti, particolarmente nella scuola primaria e in misura minore nella scuola secondaria inferiore. Dall’altro, alla maggiore incidenza di alcune tipologie di insegnanti: di sostegno, di religione, e fuori ruolo. Anche al netto di queste figure, tuttavia, il rapporto è di 9,1 insegnanti per 100 studenti in Italia, contro una media di 7,5 nei paesi Ocse. Eppure, i risultati che emergono da indagini standardizzate internazionali, come ad esempio Pisa, pongono le competenze degli studenti italiani sistematicamente sotto la media. Anche all’interno del nostro paese non emerge una correlazione tra quantità di risorse investite, distribuite abbastanza uniformemente a livello territoriale, e risultati degli studenti, che mostrano un forte svantaggio delle regioni centro-meridionali. Inoltre, se la quota di spesa in conto capitale risulta correlata positivamente con le competenze degli studenti, non lo è altrettanto la spesa per insegnanti, mentre quella per altro personale e consumi intermedi mostra addirittura una correlazione negativa. (2)
L'assenza di sistematiche correlazioni positive tra
quantità di risorse investite e risultati non esclude che esistano altri effetti sulle competenze degli studenti che le variabili elencate sopra non consentono di cogliere. E qui veniamo al secondo punto. Le differenze tra scuole potrebbero essere in parte spiegate da determinanti di tipo istituzionale anziché dall’ammontare delle risorse investite. O da altri fattori che influenzano la qualità della scuola, come il livello di preparazione e di motivazione degli insegnanti. La letteratura evidenzia fra questi la centralizzazione degli esami, il livello di autonomia scolastica, il livello di autonomia didattica degli insegnanti, l’esistenza di valutazioni da parte degli studenti e il livello di concorrenza da parte di scuole private.
In parole povere, la questione non è solo
quanto spendere per la scuola, ma soprattutto come. E visto che in Italia la quantità di risorse investite non è inferiore a quella degli altri paesi sviluppati mentre sono inferiori i risultati ottenuti, è obbligatorio ripensare al modo in cui le risorse sono spese.
A proposito del
decentramento delle responsabilità e delle competenze nel governo della scuola intrapreso in Italia dagli anni Novanta, sempre nel Quaderno Bianco (pag. 32) si legge che:
"È mancata l’assegnazione alla scuola di autonomia economico-finanziaria, ma anche la strumentazione per monitorarla; e, ancora, l’attribuzione alle scuole di poteri effettivi che consentano a ognuna di esse di attuare gli interventi necessari al miglioramento dei propri risultati".
Si tratta di una descrizione coincisa ed efficace di come una qualunque
riforma sia destinata a rimanere incompiuta, finché al decentramento non si affianchi l’attribuzione di poteri effettivi e responsabilità in capo a chi è chiamato a gestire la fornitura del servizio. Se a questo aggiungiamo la già dimostrata avversione dei principali attori del sistema scolastico, ovvero gli insegnanti, alla loro valutazione e incentivazione su base meritocratica, risulta abbastanza facile prevedere che eventuali risorse addizionali da destinare alla scuola non sortiranno effetti di rilievo sulle competenze degli studenti.
 

(1) Krueger, A.B. (1999). "Experimental Estimates of Education Production Functions" Quarterly Journal of Economics 114(2): 497-532.

(2) Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) "Territorial Differences in Italian Students’ Mathematical Competencies: Evidence from Pisa 2003", IZA Discussion Paper No. 2603 (February) – Bonn: IZA.


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I conti fatti senza i bambini stranieri

di Francesco Billari 21-09-2007

Quanti saranno gli studenti della scuola nei prossimi anni? Di quanti insegnanti avremo bisogno, e dove? Non è semplice rispondere a queste domande, fondamentali per ogni serio esercizio di pianificazione in un campo cruciale come l’istruzione pubblica. Nel Quaderno bianco sulla scuola un modello di simulazione cerca di farlo, ma sconta il mancato aggiornamento delle previsioni demografiche e una scarsa considerazione dell’effetto della recente "rivoluzione demografica" sulla presenza di alunni stranieri.

Demografia e scuola

Chi andrà in prima elementare nel 2012? La risposta a questa domanda è potenzialmente banale: a meno degli anticipi scolastici e di fattori demografici tra oggi e il 2012 (decessi, e soprattutto immigrazioni), alla prima campanella si presenteranno i nati in Italia nel 2006: 560mila circa. Forse alcuni tra noi saranno sorpresi nel sapere che i nati nel 2006 sono quasi il 16 per cento in più dei nati di un decennio prima: 484mila. (1) Insomma, in questi dieci anni non è continuato il ben noto calo, ma le nascite sono aumentate.
L’effetto della demografia sulla scuola è sempre stato importante. Caso da manuale è quanto è successo nella
Romania di Ceausescu: l’introduzione di una politica improvvisamente pronatalista (con la proibizione dell’aborto legale) ha fatto quasi raddoppiare le nascite da un anno all’altro: 274mila nel 1966 e 528mila nel 1967. Non è un caso così lontano da noi: è successo nel paese che è oggi il primo per presenza straniera in Italia, in numero superiore a quello dei nati in Romania del 1966. Ovviamente, la carriera scolastica della leva romena del 1967 è stata disastrosa: improvvisamente le scuole si sono trovate, impreparate, di fronte a una mole doppia di studenti, con classi di 40 alunni e lezioni fino a tre turni. (2) Pur essendo lontani da quell’esempio, è bene ricordare che una seria programmazione scolastica (e non solo) non può che poggiare su solide ipotesi demografiche, per non doversi scontrare con una realtà colpevolmente inattesa.

La scuola italiana tra vent’anni

Dallo sforzo congiunto dei ministeri della Pubblica istruzione e dell’Economia e delle Finanze è nato il Quaderno Bianco sulla Scuola. Contiene un interessante, e ambizioso, prototipo di modello per prevedere il numero di studenti da qui a vent’anni a livello nazionale e regionale.
Partendo dal numero di studenti, il modello consente di prevedere il fabbisogno di insegnanti. Non presenta una sola previsione "centrale", ma una forchetta compresa tra un’ipotesi alta (con più studenti e insegnanti) e un’ipotesi bassa (con numeri minori).
Quali sono i risultati? In Italia nell’anno scolastico 2006/07 gli studenti (dalle scuole dell’infanzia alle secondarie superiori) sono stati 7736 mila. Tra
dieci anni gli studenti sarebbero da 7655 (ipotesi bassa) a 8135mila (ipotesi alta). Tra venti anni, da 6994 (ipotesi bassa) a 7863 mila (ipotesi alta). A venti anni, dunque, il modello prevede un aumento massimo del numero di studenti dell’1,64 per cento. E nel caso minimo una diminuzione del 9,6 per cento rispetto a oggi. La diminuzione colpirebbe soprattutto il Sud, che è in piena crisi demografica, e si ripercuoterebbe in tempi diversi per livello di scuola. In generale, per il Quaderno si prospetta un cambiamento graduale e senza rivoluzioni sul numero di studenti per i prossimi vent’anni.
La previsione dell’andamento del numero di studenti si riverbera sul tendenziale fabbisogno di insegnanti, per i quali è prevista comunque un’allocazione più efficiente rispetto allo stato attuale (ovvero: meno insegnanti per alunno). Partendo da 888mila nel 2006/07, il fabbisogno a dieci anni sarebbe di 853 (ipotesi bassa) oppure 906mila (ipotesi alta). A venti anni, il fabbisogno sarebbe di 778 (ipotesi bassa) oppure 875mila (ipotesi alta) insegnanti. Dunque, il
Quaderno prevede in ogni caso una riduzione del numero di insegnanti nella scuola pubblica da qui al 2026-2027.

Ma siamo proprio sicuri?

Il modello prototipo del Quaderno è molto ben congegnato e delinea in modo trasparente le ipotesi adottate. In questo senso, è un ottimo esempio di modello utile per le policy, con uno stile che dovrebbe essere adottato più in generale, come dagli stessi ministeri quando pensano all’università. La trasparenza ha un costo: si individuano più facilmente i punti deboli e i rischi insiti nelle previsioni. Queste previsioni dovranno essere riviste, come già previsto dallo stesso Quaderno, sperando che il provvisorio non diventi definitivo senza riflessioni.
Ma quali sono i punti deboli e i rischi della previsione dei ministeri sulla scuola nei prossimi vent’anni?
Il problema principale è demografico, ma anche squisitamente politico: la scarsa considerazione di quella che è stata la vera e propria
rivoluzione demografica degli ultimi anni in Italia, e che si riverbera nell’aumento degli alunni stranieri. Il Quaderno parla pochissimo degli alunni stranieri o di origine straniera, citati solo otto volte in 246 pagine di rapporto.
Come si fa a parlare del futuro della scuola in Italia senza avere una grande attenzione verso i nuovi italiani? Nel 2005/06 sono stati quasi il 5 per cento degli alunni, più dell’8 per cento nel Nord Est, e la quota è destinata ad aumentare. Sempre nel 2005, il
12,2 per cento dei neonati in Italia ha una madre straniera, con punte del 28 per cento nella provincia di Prato e del 25,4 per cento in quella di Brescia e, all’opposto, l’1,5 per cento in quella Taranto. Inoltre, i nuovi immigrati portano spesso con sé i figli, andando a incrementare anche la popolazione nelle fasce di età scolastica. La sfida dell’integrazione per le seconde generazioni passa, com’è ovvio, primariamente dalla scuola: nessuna considerazione del potenziale maggiore fabbisogno di docenti a parità di studenti nelle scuole con molti alunni stranieri, né in generale delle nuove sfide generate dai "nuovi italiani" è presente nel modello. Poca attenzione su questo tema sembra pervadere l’intero Quaderno. Un atteggiamento molto rischioso.
La questione è ancora più problematica considerando le previsioni demografiche sottostanti: quelle "ufficiali" Istat del 2003 (ormai datate, riferite alla situazione pre-censimento 2001, con un numero di stranieri pari a circa la metà di oggi) e del 2007 (ancora incomplete). A rischio di sottostima dei numeri è in particolare l’ipotesi alta del Quaderno, che prevede un
flusso netto di immigrati pari a 162mila unità annue nei prossimi vent’anni. Come possiamo pensare che si tratti di un estremo superiore per la programmazione se il flusso netto di immigrati è stato 377mila nel 2006, 300mila nel 2005, 558mila (per le regolarizzazioni) nel 2004, e così via? Insomma: l’ipotesi alta rischia una sottostima del numero di alunni nei prossimi vent’anni, soprattutto se i flussi migratori continueranno al ritmo attuale, contribuendo sia alle presenze di bambini sia alle nascite.
Il Quaderno mette in guardia verso gli alti costi della non programmazione "alla Ceausescu" e di un sottodimensionamento delle strutture e del numero di docenti. Ma proprio per questo l’ipotesi alta è troppo bassa ed è ben lontana dal rappresentare una
soglia di sicurezza per la programmazione. In presenza di forti migrazioni, come oggi in Italia, la proverbiale inerzia della demografia va messa in discussione: soprattutto per i bambini, tanto può cambiare in poco tempo.
Le previsioni sulla scuola saranno riviste quando l’Istat rilascerà le nuove proiezioni demografiche, la cui frequenza è oggi troppo diradata. Il modello di fondo è valido, ma occorrerà porre maggiore attenzione al numero di alunni di origine straniera e agli effetti della loro presenza sulle necessità di docenza.
 

(1) I dati sono di fonte Istat per l’Italia (http://www.demo.istat.it/), Eurostat per la Romania (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/).

(2) Si può vedere ad esempio: Manuela Lataianu, The 1966 Law Concerning Prohibition of Abortion in Romania and its Consequences. The Fate of one Generation, Euresco Workshop "The Second Demographic Transition in Europe", Bad Herrenalb, 2001 (http://www.demogr.mpg.de/Papers/workshops/010623_paper25.pdf).


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La giostra degli insegnanti

di Paolo Sestito* 21-09-2007

Il Quaderno bianco sulla scuola costituisce un’importante presa d’atto dei problemi e delle difficoltà del sistema scolastico italiano. La sua importanza è per più versi accresciuta dal suo essere un documento congiunto del ministero di spesa settorialmente competente e del ministero di controllo della spesa. In quanto tale, ben potrebbe rappresentare il punto d’avvio d’una riflessione sulla efficacia ed efficienza del sistema scuola in Italia. Riflessione tanto più opportuna alla luce del fatto che il nostro paese, anche nel confronto internazionale, spende tanto, in rapporto al numero di studenti, a fronte di risultati, in termini di competenze raggiunte dai nostri studenti, in media poco soddisfacenti e molto iniquamente distribuiti, con un forte divario tra Nord e Sud e tra scuole diverse, anche all’interno dello stesso ordine di scuole. (1)

I suggerimenti del Quaderno

La spesa è elevata soprattutto a causa di un elevato rapporto insegnanti/alunni, non per via di un’elevata retribuzione unitaria degli insegnanti. Il Quaderno sembra voler rappresentare una sterzata rispetto ai dibattiti abituali sulla scuola, molto centrati - soprattutto in questa stagione dell’anno, alla vigilia della predisposizione della legge Finanziaria - sulle quantità degli input (gli aspiranti insegnanti a cui trovare un contratto stabile) e poco sulla qualità dell’output - gli apprendimenti, alquanto differenziati tra scuole, nonostante l’uniformità di regole e trattamenti.
La direttrice suggerita per superare questo stato di cose sembra essere quella fornita dal combinato disposto di maggiore
autonomia delle scuole (quella che viene definita l’attuazione di una "riforma già fatta") e maggiore capacità di governo e monitoraggio centrali del sistema (in termini di programmazione dei flussi di personale e di valutazione degli apprendimenti e quindi delle scuole da parte dell’Invalsi). La direttrice in questione pare in linea con le evidenze disponibili a livello internazionale, che nel binomio autonomia (e flessibilità operativa) e valutazione (omogenea e quindi in qualche misura centralizzata) vedono un’accoppiata vincente, l’una cosa senza l’altra rischiando di produrre più danni che benefici. Naturalmente, molti aspetti di dettaglio richiedono ulteriori precisazioni e approfondimenti, l’obiettivo del Quaderno sembrando esser proprio quello di aprire in proposito un vivace dibattito. Senza entrare nel merito delle proposte più specifiche contenute nel documento, qui ci si limita a sintetizzare alcune evidenze significative sul come regole omogenee e meccanismi centralizzati di allocazione del personale finiscano col produrre risultati fortemente differenziati. La centralizzazione, ancor prima che il loro non affidarsi a meccanismi programmatori pluriennali (quali quello esposto nel Quaderno), sembra infatti fonte di inefficienze.

Le scuole più desiderate

In Italia molti degli insegnanti annualmente incaricati presso le diverse scuole sono precari, con incarichi fino al termine delle attività didattiche o fine al termine dell’anno scolastico. Gli incarichi, circa il 15 per cento delle posizioni annualmente in essere, sono definiti annualmente ripercorrendo l’ordine in graduatoria di chi aspira a un contratto permanente da insegnante. (2) Di per sé, la natura centralizzata e amministrativa degli incarichi annuali porta a un notevole turnover del corpo docente delle singole scuole: anche se la gran parte dei precari con incarico annuale in un dato anno è poi occupata anche nell’anno scolastico successivo, molto spesso ciò accade in una scuola diversa.
Il
turnover effettivo è poi ulteriormente innalzato da quegli insegnanti che, pur avendo un contratto a tempo indeterminato, si muovono, su loro richiesta, da una scuola all’altra. Nel complesso, ogni anno circa un insegnante su cinque è un nuovo arrivato nella specifica scuola in cui si trova a operare. L’indicatore in questione, peraltro, sottovaluta l’instabilità del corpo docente perché considera la situazione assestata degli incarichi annuali, senza tener conto del fatto che spesso le assegnazioni definite a settembre vengono poi mutate nel corso dell’anno. Ma il fenomeno è plausibile fonte di difficoltà nello svolgimento e nella programmazione dell’attività didattica. La programmazione didattica è del resto in Italia affidata più al collegio dei docenti (e ai singoli docenti) che alle scuole in quanto tali, che in questo "va e vieni" di docenti sono un elemento alquanto passivo, non potendo "scegliersi" gli insegnanti. Il turnover, oltre a variare molto tra scuole, appare negativamente correlato con i risultati (nelle scuole secondarie superiori) dell’indagine Pisa.

* Le opinioni qui espresse sono esclusivamente personali e non necessariamente impegnano l’Istituzione di appartenenza.

(1) Il divario rispetto ad altri paesi in termini di competenze, per come misurato dall’indagine Pisa, sembra più marcato di quello in termini di conoscenze (le prime essendo definibili in termini di capacità di utilizzo delle seconde). Ciò potrebbe in parte discendere da un orientamento culturale più "scolastico" e tradizionale della scuola italiana, non ben rappresentato da misure originatesi in prevalenza nel mondo anglosassone. Più discusso è se ciò rifletta un problema – connesso ad esempio al rischio che la nostra scuola sottovaluti l’empirismo, la scienza e la tecnologia moderne. L’opinione di chi scrive è che, almeno in parte, nell’orientamento culturale della nostra scuola vi siano dei tratti problematici. Il punto che però qui più interessa è che una scarsa qualità media degli apprendimenti degli studenti italiani è comunque confermata anche da altre misure (ad esempio Pirls e Timms) una volta che si effettuino confronti su base omogenea con gli altri paesi. Se dal confronto tra le diverse indagini una conclusione deve trarsi è semmai che i ritardi degli studenti italiani crescono al procedere del corso degli studi, segnalando le difficoltà della scuola, in particolare di quella media inferiore. Soprattutto, quelle misure (e quelle definite dall’Invalsi a livello esclusivamente nazionale) confermano il pattern delle differenze interne all’Italia.

(2) Essi non esauriscono l’universo del precariato, in cui vanno anche ricompresi i soggetti incaricati per periodi più brevi. Sono le cosiddette supplenze
brevi, definite dalle singole scuole, la cui effettuazione poi consente, in assenza di qualsivoglia concorso e meccanismo di verifica di attitudini e capacità, di entrare nelle liste degli aspiranti al ruolo da cui sono anche tratti i docenti con incarichi annuali.

Correlazione tra mobilità dei docenti e risultati del test Pisa 2003
 (a livello di scuola)

 

Matematica

letteratismo

Dati grezzi    

Turnover

-.238

-.27

Mismatch

-.281

-.353

Preferenze rivelate

.227

.318

Dati Pisa al netto degli effetti di genere e background familiare    

Turnover

-.159

-.200

Mismatch

-.228

-.323

Preferenze rivelate

.231

.369

Dati Pisa al netto degli effetti di genere, background familiare, provincia e tipo di scuola e indicatori di mobilità al netto degli effetti di provincia e tipo di scuola

   

Turnover

-.265

-.325

Mismatch

-.485

-.580

Preferenze rivelate

.392

.534

Fonte: Gianna Barbieri, Piero Cipollone e Paolo Sestito: Labour market for teachers: demographic characteristics and allocative mechanisms, mimeo, luglio 2007


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Se la selezione resta fuori dall'aula

di Andrea Ichino 21-09-2007

Il Quaderno bianco potrebbe essere ancora più esplicito, ma il messaggio per il ministro Fioroni nelle pagine dedicate all’organizzazione delle risorse umane è chiarissimo: "le caratteristiche dell’attuale assetto vanno in direzione difforme da quella suggerita dalle evidenze internazionali oltre che dal buon senso".
È infatti in primo luogo il buon senso, oltre che una sconfinata mole di ricerca teorica ed empirica nell’area della "Personnel economics", a suggerire che la gestione delle risorse umane nella scuola italiana sia un fallimento in entrambi i suoi pilastri fondamentali: la
selezione e l’incentivazione del personale. Così come attualmente strutturati i due pilastri potrebbero funzionare solo se gli insegnanti fossero tutti santi, missionari e dotati naturalmente di caratteristiche perfette e inossidabili per fare il loro lavoro.
Se il ministro concorda sul fatto non ci si possa attendere dagli insegnanti di avere queste caratteristiche, i due pilastri vanno ricostruiti ex novo.

Selezione del personale

I lavori di Hanushek e altri, citati dal Quaderno bianco, mostrano in modo inequivocabile che ci sono caratteristiche individuali e persistenti nel tempo degli insegnanti, in virtù delle quali chi è "bravo" lo è in qualsiasi scuola e con qualsiasi gruppo di studenti, mentre è poco frequente il caso di insegnanti "bravi" in un contesto e non in un altro. Chiamatelo come volete, ma l’evidenza empirica (e anche le esperienze personali) suggeriscono che esista un "talento del saper insegnare" che non tutti hanno in ugual misura. E ben poco può fare la formazione professionale per sopperire alla mancanza di talento, poiché serve a poco versare acqua dove nulla può crescere.
Questo è vero per molte professioni, e non a caso la selezione del personale è forse il problema più difficile da risolvere nella gestione delle risorse umane, ma ciò che qui importa è che il sistema dei concorsi pubblici è palesemente incapace di evitare l’assunzione di persone che non dovrebbero fare gli insegnanti. Prima ancora che un problema di incentivazione, gli "insegnanti fannulloni" di cui tanto si parla sono il sintomo di una selezione sbagliata del personale all’inizio della carriera. Se un appunto può essere fatto al Quaderno bianco, è che sul problema dei concorsi e del reclutamento dice troppo poco.
In particolare, il Quaderno non mette in luce il motivo strutturale che impedisce ai concorsi pubblici italiani di selezionare in modo efficiente gli insegnanti. Che è semplice: chi sceglie, ossia la commissione concorsuale, non subisce le
conseguenze di una scelta sbagliata. Nella migliore delle ipotesi, si limita alla verifica di requisiti burocratico-formali che spesso non garantiscono l’esistenza di una reale "capacità di insegnare", guardandosi bene dal prendere in considerazione ben più rilevanti caratteristiche sostanziali, per il timore di accuse di arbitrarietà discriminatoria. Nell’ipotesi peggiore, ma purtroppo frequente, l’arbitrio della commissione viene mascherato sotto il velo della correttezza burocratico-formale non per selezionare il meglio, ma solo al fine di far passare i raccomandati di turno.
In questo come in altri settori della pubblica amministrazione, è necessario sostituire il sistema concorsuale con un sistema in cui le decisioni di assunzione vengano prese da chi sopporta le conseguenze di decisioni sbagliate, ossia in primo luogo dai
presidi di ciascuna scuola. Chiamiamoli pure concorsi locali e stabiliamo con chiarezza e trasparenza quali requisiti formali oggettivi i candidati debbano avere, ma lasciamo anche spazio per una valutazione del "non misurabile" da parte dei presidi: non ci saranno rischi di corruzione se la valutazione di performance delle scuole (su cui il Quaderno opportunamente fa numerose dettagliate proposte) verrà utilizzata per premiare i presidi che facciano scelte giuste. E anche in assenza di questo, ci saranno i genitori e gli studenti a premere perché i presidi non facciano errori. E la pressione va benissimo per questo e altri problemi, purché ai presidi vengano dati gli strumenti giusti per governare le risorse umane a loro affidate.

Incentivazione del personale

È di nuovo il buon senso prima ancora che la teoria economica a suggerire che solo dei santi possono essere disposti a dare il massimo senza ricevere alcun compenso per il loro impegno. È giunta l’ora di mettere in soffitta l’ipocrisia di chi ritiene che l’insegnamento sia una missione da non svilire abbinandola a problemi di "vil denaro".
I fatti sono chiarissimi nelle tabelle del Quaderno bianco: non è che gli insegnanti italiani siano pagati drammaticamente meno che negli altri paesi in termini di retribuzione oraria o annua. Anche senza questa evidenza, basterebbe a dimostrarlo il fatto che i concorsi hanno un numero di candidati largamente superiore ai posti disponibili. Quindi per molti, a conti fatti, la carriera dell’insegnante è attraente proprio perché
paga relativamente bene per quanto concretamente richiesto dal datore di lavoro.
Il vero problema è che la retribuzione e la progressione di carriera degli insegnanti sono interamente determinate dall’
anzianità di servizio o da incarichi particolari, e completamente indipendenti dall’impegno profuso e dai risultati ottenuti, comunque misurati. Per gli insegnanti non esistono nemmeno promozioni tra livelli, ancorché meramente contrattuali, come invece accade in altri settori della pubblica amministrazione.
La soluzione è una sola ed è urgente: le retribuzioni e le carriere degli insegnanti devono dipendere in misura maggiore dalla performance, misurata almeno a livello di scuola e possibilmente anche al livello di ogni singolo lavoratore. È ipocrita nascondersi dietro il dito della difficoltà di misurare l’input e l’output. Il Quaderno bianco è pieno di suggerimenti interessanti a questo proposito e avrebbe potuto farne altri ancor più coraggiosi.
Ma soprattutto è bene chiarire che questo è un terreno in cui, per trovare la soluzione migliore, è necessario sperimentare combinazioni di meccanismi di incentivazione, mentre è del tutto inutile discutere quale essa sia su un piano ideologico di principio. Ha ragione chi dice che il lavoro degli insegnanti non può essere misurato solo in termini di
input, ad esempio giorni di presenza. Così come non può essere valutato solo sulla base di indicatori misurabili di output, ad esempio, la performance degli studenti in livello o variazione o i giudizi dei genitori. Ha anche ragione chi sottolinea l’esistenza di componenti della valutazione di un insegnante non riducibili a numeri e che devono avere una rilevanza anche se suscettibili di dipendere in modo arbitrario dalle opinioni dal valutatore. Il mix giusto può essere trovato solo sperimentalmente e deve essere individuato da chi sopporta le conseguenze della scelta di un mix sbagliato. Ancora una volta dovrebbe toccare ai presidi la sperimentazione e la scelta della soluzione più adatta alla loro scuola, nell’ambito di linee guida molto generali stabilite dal ministero. Questo a condizione che ai presidi, e via via a chi sta sopra di loro, siano stati indicati gli obiettivi da perseguire e gli incentivi corrispondenti.
Al vertice della piramide ci sta il ministro: tocca a lui cominciare dai suoi collaboratori.


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Imparare a ragionare. A Nord come a Sud

di Salvatore Modica 21-09-2007

Il divario di competenze fra Nord e Sud si può riassumere più o meno in questi termini: problemi che al Nord sanno risolvere la metà dei ragazzi, al Sud vengono risolti da uno su cinque. (1) Secondo Bratti-Checchi-Filippin (2007), il 70 per cento del divario è dovuto al contesto (famiglia, legalità, servizi pubblici, infrastrutture) e il 30 per cento a problemi interni al governo della scuola. (2) Dunque, il divario è profondo, e solo in parte dovuto a carenze interne del sistema scolastico. D’altra parte, l’impegno politico sul problema è serio: nei programmi 2007-2013 di politica regionale per lo sviluppo ci sono 4,2 miliardi di euro destinati ad interventi sull’istruzione, a fronte di 1 miliardo nel 2000-2006 (www.dps.tesoro.it/qsn/qsn.asp).

Dal sapere al saper fare

Il governo sembra aver fatto proprio l’obiettivo del passaggio "dal sapere al saper fare" che è oggi il punto di riferimento degli standard internazionali di misurazione della qualità dei sistemi scolastici: è necessario sapere la regola di risoluzione di un’equazione algebrica, ma è importante capire quando un problema non algebrico si risolve con quell’equazione. Perché a questo "imparare a ragionare" si riferisce, da un lato, il ministero della Pubblica istruzione quando pone l’accento sull’importanza della matematica e dell’italiano; e dall’altro, il ministero dello Sviluppo economico, quando inserisce nel Programma sull’istruzione 2007-2013 obiettivi "vincolanti" definiti in termini di variabili misurabili, in particolare la frazione di studenti che acquisisce competenze superiori al primo livello Pisa.
Sull’aspetto fondamentale della realizzazione dei programmi del governo, il Quaderno bianco sulla scuola propone alcuni passi da attuare già nella attuale fase di avvio. In particolare:
(1) Costruire quanto prima una base ampia di informazioni sulle competenze degli studenti, sfruttando possibilmente i risultati di Pisa 2006 che arrivano a dicembre, oltre che sul contesto, al fine di orientare gli interventi in funzione delle
necessità reali del territorio.
(2) Stabilire nei singoli istituti scolastici un collegamento diretto con l’
Invalsi, che fornisca supporto nell’analisi della situazione e nella ricerca delle direzioni di miglioramento. A tal proposito, di grande utilità sarebbe a nostro avviso una "banca test" gestita dall’Invalsi contenente esercizi, problemi e test disciplinari che le scuole possano utilizzare quotidianamente.
(3) Sperimentare forme di
incentivi agli istituti e ai docenti basati sui risultati ottenuti in termini di competenze, utilizzando i fondi addizionali 2007-2013.
Aggiungeremo qui un paio di considerazioni che assumono particolare rilevanza nella realtà del
Mezzogiorno in cui bisogna produrre una discontinuità. Ma va premesso che il ministero ha senza dubbio individuato le criticità principali del sistema: infrastrutture, autonomia scolastica, contenuti dell’apprendimento, valutazione dei risultati, centralizzazione (almeno parziale) degli esami, tempo pieno, infanzia.

Autonomia, misurabilità, incentivi

È largamente confermata da ricerche empiriche, citate anche nel Quaderno, l’idea che la qualità della scuola dipende in larga misura dal lavoro degli insegnanti, ai quali va garantita autonomia di gestione in un contesto di misurabilità dei risultati ottenuti (nel caso italiano, con funzioni manageriali dei dirigenti scolastici e di supporto dell’Invalsi). Il discorso è chiaro: la decentralizzazione delle scelte operative permette di sfruttare meglio l’informazione in possesso degli agenti locali, ma perché il sistema nel suo complesso si attesti su livelli accettabili occorre poter misurare i risultati raggiunti nei diversi centri di decisione. Altrettanto chiaro è però che la misurabilità dei risultati induce comportamenti volti a massimizzarli soltanto se questi vengono adeguatamente premiati. Nel Quaderno, la necessità della presenza di forti incentivi agli insegnanti non sembra essere sottolineata, forse per motivi "politici", con sufficiente fermezza. (3)

Infanzia e tempo pieno

Su entrambi i fronti il governo sta già intervenendo, il problema riguarda l’ordine di priorità.
A nostro avviso, queste non sono due fra le mille cose che devono essere fatte: sono le più importanti. Perché se il divario di competenze è dovuto per il 70 per cento al contesto, una buona parte delle risorse dovrebbe servire a far vivere i bambini e i ragazzi svantaggiati in ambienti migliori di quelli
familiari e sociali di provenienza. Si noti che per quanto riguarda l’infanzia, importanti ricerche indicano che una parte significativa del differenziale di capacità cognitiva fra figli di genitori con diverso grado di istruzione si determina prima dei cinque anni. (4)
Il
tempo pieno, poi, è essenziale e uno sguardo alla figura 1.19 del Quaderno dà un’idea dei termini del problema nelle scuole primarie. Tuttavia, resta da chiarire cosa si va a fare a scuola di pomeriggio. L’obiettivo di "favorire l’ampliamento dell’offerta formativa e un pieno utilizzo degli ambienti e delle attrezzature scolastiche" (5) è ambiguo, laddove è fondamentale sfruttare il servizio addizionale precisamente per quel passaggio dal sapere al saper fare che permea tutto il programma. In altre parole, di pomeriggio si dovrebbero fare esercizi. Con il tutoraggio di insegnanti bravi che in tal modo potrebbero essere adeguatamente ricompensati.

Governo e opposizione

I processi di cui stiamo discutendo hanno orizzonti temporali lunghi, non si può pensare che il paese possa fare passi avanti se ogni governo disfa quello che il precedente ha realizzato. Quello attuale, in materia di istruzione, non sembra avere un atteggiamento disfattista verso chi l’ha preceduto, ma ha la responsabilità di non aver ancora aperto un confronto approfondito sulla questione. Per esempio, al centro del quadro tracciato nel Quaderno bianco si trova un Invalsi trasformato in un alto centro di competenza e ricerca, punto di riferimento di tutto il sistema: un soggetto di questo tipo o è di tutti o dura poco. E se dura poco è un guaio grosso.

(1) Vedi i dati dell’indagine Pisa, Programme for International Student Assessment, che nel 2003 si è incentrata sulle competenze in matematica.
(2) Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) "Territorial Differences in Italian Students’ Mathematical Competencies: Evidence from Pisa 2003", IZA Discussion Paper No. 2603 (February). Per il divario Nord-Centro, le quote sono rispettivamente 25 e 75 per cento.
(3) Per inciso, se alcuni insegnanti vanno pagati più di altri, dove si prendono i soldi quando finiscono i fondi addizionali? Una risposta possibile è: dalle paghe dei docenti universitari. Considerando lo sviluppo del nostro sistema universitario, che sarà sempre più marcatamente suddiviso in due livelli – uno inferiore delle lauree brevi, uno superiore che produce conoscenza –, viene subito da chiedersi perché un bravo insegnante di scuola debba guadagnare la metà di un docente universitario che ha prodotto ricerca mediocre e che da un certo punto in poi fa solo didattica elementare.
(4) Vedi Heckman, J.J., "The New Economics of Child Quality", 2007. E "Millennium Cohort Study", Center of Longitudinal Studies,
www.cls.ioe.ac.uk
(5)
Comunicato stampa del ministero dell’Istruzione del 31 agosto 2007.


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Il Quaderno promuove la valutazione. Con qualche riserva

di Bruno Losito 21-09-2007

 

Il Quaderno bianco sulla scuola attribuisce una notevole rilevanza alla valutazione, sia nella prima parte di analisi, sia nella seconda, dedicata alle proposte di intervento e alle condizioni per la loro realizzazione. Si tiene conto di diverse prospettive teoriche e delle evidenze empiriche disponibili, delle esperienze realizzate a livello internazionale e nazionale, delle principali posizioni emerse nel dibattito su queste prospettive e su queste esperienze. Dalla lettura del testo e dal confronto tra le due parti emergono alcuni nodi critici, che richiedono ulteriori approfondimenti e specificazioni.

Ricerca valutativa ed educativa e attività di valutazione

Il Quaderno sottolinea l’esigenza e l’importanza di una distinzione tra ricerca valutativa e attività di valutazione, sostenendo l’opportunità di rilanciare la prima "in luoghi autonomi da quelli della sua finalizzazione esecutiva" (p. X). Si tratta di un punto qualificante della analisi e della proposta, perché riguarda una delle cause più importanti della scarsa diffusione di una cultura valutativa nel nostro paese, da cui deriva anche una certa dipendenza dalle indagini internazionali, soprattutto per quanto riguarda i modelli di riferimento e le metodologie adottate.
Nella parte dedicata agli interventi da realizzare nel breve e nel medio-lungo periodo, però, questa raccomandazione viene soltanto in parte sviluppata e rimane sullo sfondo. Vengono individuati in modo articolato gli ambiti in cui sviluppare la ricerca, ma poche sono le indicazioni relative ai "luoghi" all’interno dei quali collocarla. Ne vengono esplicitamente menzionati alcuni (Cnr, università e altri enti pubblici e privati), ma non vengono formulate
proposte concrete. Probabilmente questo è in parte dovuto alle caratteristiche del Quaderno, ma la mancanza di indicazioni e la non individuazione delle possibili risorse su cui far leva e dei passaggi da compiere, rischia di privilegiare di fatto,, –le attività di "servizio" a scapito della ricerca.
Va detto che non è comunque facile formulare proposte in questo senso in un paese come il nostro, in cui la ricerca in campo educativo (accademica e non) è in forte ritardo rispetto a quanto avviene altrove, anche per responsabilità del mondo dell’educazione, ancora largamente ancorato a una concezione della riflessione educativa di tipo filosofico, parzialmente di tipo storico, ma sostanzialmente poco attenta alla ricerca empirica e sperimentale.

Il ruolo dell’Invalsi

La scelta che il Quaderno sembra suggerire per la realizzazione delle attività valutative è quella della loro concentrazione in un unico istituto, l’Invalsi, per il quale vengono indicati nuovi compiti, un nuovo status giuridico, una nuova articolazione organizzativa. All’istituto vengono assegnate molteplici responsabilità: la valutazione degli apprendimenti degli studenti, la valutazione delle scuole, la valutazione dei dirigenti scolastici, la realizzazione delle indagini internazionali di tipo valutativo. Oltre a una funzione di sostegno al ministero e alle scuole per le attività di miglioramento.
I
problemi che sembrano delinearsi sono più di uno. Il primo riguarda l’opportunità di affidare a un unico soggetto questa molteplicità di funzioni. Altri paesi in cui la ricerca e le attività valutative hanno una tradizione molto più consolidata hanno operato scelte in direzione contraria.
Un
secondo problema riguarda la opportunità/possibilità di individuare sempre nell’Invalsi la "casa" (per usare la terminologia del Quaderno) delle attività di sostegno e supporto alle scuole, a seguito degli esiti delle attività valutative. Il Quaderno stesso sostiene la necessità di garantire una forte separazione tra le due linee di attività. (1) È un punto che richiede una attenta riflessione e una approfondita discussione. Anche perché coinvolge le scelte da compiere nei confronti di ciò che ancora rimane del servizio ispettivo, rispetto al quale a più riprese nel Quaderno si ricorda la raccomandazione di potenziamento formulata in sede Ocse.
Un
terzo problema è in che misura i compiti di ricerca e attività valutative tornano a essere compresenti all’interno dello stesso "luogo": al futuro Invalsi si riconosce esplicitamente anche una funzione di ricerca valutativa negli ambiti "statistici, econometrici, docimologici, e di valutazione delle pratiche pedagogiche" (p. 150). Evidentemente la questione richiede ulteriori approfondimenti e la necessità di sciogliere nodi ancora abbastanza aggrovigliati.

La costruzione dei "team di supporto" alle scuole

Nel Quaderno si fa costante riferimento all’intreccio tra valutazione e miglioramento delle scuole, tra valutazione e autovalutazione, in una prospettiva di integrazione e di reciproca complementarietà. Viene anche ipotizzata una struttura di supporto alle scuole e vengono indicati tempi e modalità per la costruzione dei "team" che dovrebbero svolgere questa attività. Al problema della loro collocazione istituzionale si è già fatto cenno. Quanto al processo di costruzione e alla loro composizione, sono forse da mettere in conto, al di là della qualità e della quantità delle risorse che vi si vorranno investire, tempi meno brevi per realizzare quanto il Quaderno propone. Le competenze e le figure richieste per un’attività di questo tipo sono molto articolate e complesse, così come lo sono quelle necessarie per la loro formazione. Non è chiaro dove queste competenze possano essere effettivamente costruite e sviluppate nei tempi relativamente brevi che vengono prospettati.

Lo status e la direzione dell’Istituto nazionale di valutazione

Nel Quaderno viene sottolineata la necessità di una maggiore autonomia dell’Invalsi, per il quale si propone la trasformazione in "Autorità, che riferisce del suo operato direttamente al Parlamento" (p. 150). Si indicano anche alcuni "requisiti" che dovrebbero contraddistinguere i componenti del comitato direttivo, per i quali si prospetta un impegno a tempo pieno: "qualificazione scientifica assai elevata, evidente prestigio internazionale, forte personalità e capacità di indirizzo, conoscenza riconosciuta dei sistemi di istruzione e valutazione in Italia e all’estero" (p. 151). Si tratta di indicazioni di cruciale importanza visti i compiti che attendono questo organismo, soprattutto in una prima fase di costruzione.
Allo stesso tempo, però, il loro numero e la distribuzione di compiti e responsabilità prospettati sembrano riflettere l’attuale situazione di
commissariamento dell’istituto e non risulta chiaro come possano conciliarsi con l’organizzazione interna che in prospettiva lo dovrà caratterizzare.

(1) Nella forma di due diverse direzioni «separate da una appropriata "muraglia cinese"», p. 145.