Elogio della campanella.
prof. Nando dalla Chiesa, da
l'Unità
del 27/9/2007
Il degrado, il degrado del paese. Il paese
dissestato, scombiccherato, dove dilagano tele-allegria e
spensieratezza sociale. Il paese sbrindellato, un po’ cialtrone, dove
non si sa mai chi trovi e quando lo trovi. Il paese
dell’approssimazione, degli impegni forse-che-sì forse-che-no. Il
paese degli inaffidabili. Ecco, questa Italia un po’ deformata ma
autentica, che non è tutta ma è quanto basta, dove nasce, dove ha
origine? In quale piccolo anfratto dell’animo o della mente di
ciascuno prende il via, quando - insomma - si fa embrione sociale? Non
sarà che con queste scaturigini misteriose c’entri anche il suono di
una campanella?
Su questo mi sono interrogato leggendo sui giornali la vicenda del “Mamiani”,
il liceo romano balzato una volta di più agli onori delle cronache con
la naturalezza che spetta, sorta di noblesse oblige, ai licei romani e
milanesi frequentati dai figli di giornalisti, intellettuali e
politici. Che cosa è dunque successo al Mamiani? Semplice: che il
preside ha fissato il principio che quando suona la campanella
d’inizio giornata, alle 8,10, gli allievi devono entrare a scuola. Chi
è dentro è dentro, chi è fuori è fuori, immagino con le debite
manciate di secondi di tolleranza. E ha poi deciso che per i
ritardatari scatta la carta di riserva della giustificazione.
Principio osservato e praticato senza traumi dal sottoscritto
quand’era (non docile) studente, e osservato e praticato senza traumi
decenni dopo dai miei ancora giovani figli. Ma che è apparso iniquo
agli studenti del liceo interessato. Non ho intimità con la storia
dell’istituto, e dunque non sono in grado di valutare la gravità o
l’inopportunità della misura in relazione al particolare clima civile,
politico della scuola o a quella cosa delicata e complessa che sempre
è l’antropologia studentesca, così cangiante da città a città, da
quartiere a quartiere.
E dunque ragiono in generale, come generale è il fenomeno di
sbrindellamento che sta investendo i nostri costumi. Perché in effetti
nulla o quasi nulla, preso nella sua particolarità, può essere
dichiarato con certezza causa o sintomo di declino culturale. Non lo
sono, in sé, né Miss Italia, né “L’isola dei famosi”, né la foto
taroccata delle cugine di Garlasco, né l’usanza petulante di dare del
tu a tutti (splendido l’articolo di Citati di quest’estate!), né la
conversazione a voce alta sul cellulare in treno, né l’andare a
sostenere l’esame in bermuda. Eccetera. Eccetera. Sissignori, nessuna
di queste così eterogenee “sostanze”, e nessuna delle loro infinite
pari-grado, porta in sé con certezza i germi del declino. Ma il solo
elencarle insieme, ne converremo, disegna, quello sì, un mosaico che
esprime il declino degli usi e costumi. Del tutto compatibile, si
intende, con l’aumento dei viaggi, con la crescita del benessere, con
l’innalzamento del grado formale di istruzione, con le vertigini del
progresso tecnologico. Tutti fenomeni che anzi imprimono a tale
declino modalità particolari e spesso pittoresche, proprio come nei
film di Verdone.
E’ in questo contesto che è chiamata a svolgere la sua umile ma
insostituibile funzione la campanella. La campanella che suona e dà un
orario a tutti. Studiosi e indolenti. Ricchi e poveri. Di destra e di
sinistra. Preadolescenti e maggiorenni. La scuola come comunità, in
fondo, è anche una campanella rispettata. Vero, verissimo: dietro una
campanella rispettata può esserci il vuoto culturale. Ma dietro una
campanella bistrattata, in genere, il vuoto culturale avanza con
certezza. Lentamente, impercettibilmente, al riparo delle ideologie
progressive, ma con regolarità impietosa. Perché la campanella, come
altri strumenti più o meno graziosi, sonori o silenziosi, obbliga e
forma alla puntualità, abitua quotidianamente al rispetto degli orari.
E la puntualità è civiltà. La puntualità esprime il rispetto per gli
obblighi collettivi e per gli obblighi interpersonali. Ognuno di noi
si infuria quando partono in ritardo il treno o l’aereo, quando il
tram arriva venti minuti dopo l’orario indicato alla fermata, quando
l’ufficio pubblico apre con suo sommo comodo. Tutti - treno, aereo,
tram, ufficio pubblico - indifferenti di fronte agli impegni, alle
incombenze, al tempo perso dai cittadini. Così come ognuno si arrabbia
quando l’amico, il collega, il cliente, non rispetta la puntualità o
quando vede il politico giungere al dibattito o alla pubblica
manifestazione con ritardi da sposa bizzosa. Perché il tempo che il
ritardatario impiega (fruttuosamente o meno) da un’altra parte, lo fa
perdere a chi lo aspetta. L’inciviltà nasce, prospera,
nell’indifferenza alla puntualità. E produce a cascata i corollari
della società sbrindellata: l’inaffidabilità, l’incertezza delle
prestazioni e dei doveri, la precarietà dei servizi.
Non a caso nella società massificata, intessuta di chiacchiera e di
approssimazione, i luoghi per eccellenza dell’arte in diretta, il
teatro e l’auditorium, sono anche quelli che per eccellenza non
tollerano eccezioni alla puntualità. E anzi la associano a una
rigorosa e condivisa disciplina. Chi ci va deve rispettare l’orario,
viene svillaneggiato coralmente se dimentica il cellulare acceso, di
fatto non può nemmeno tossire o starnutire. L’arte, ossia il prodotto
dell’intelletto e della creatività, pretende, per esprimersi, contesti
altamente regolati. E a ben pensarci la rissa d’agosto in Costa
Smeralda tra Zucchero, grande bluesman, e il pubblico del Billionaire
proprio questo ha rumorosamente registrato: il fatto che la società
sbrindellata nemmeno il silenzio davanti all’artista accetta più.
Prima viene la chiacchiera, meglio se gorgogliante intorno a tavole
imbandite.
E’ paradossale che mentre tutti siamo impegnati a notare e a
confidarci i segni della superficialità e della sciatteria che ci
travolge, non riusciamo a stabilire i modi, gli strumenti, le semplici
abitudini capaci di riportarci ai comportamenti utili a una convivenza
più civile e intelligente. Che non riusciamo, nemmeno noi adulti, a
capire che il massimo delle libertà personali non coincide affatto con
la massima libertà collettiva. E che anzi spesso la stessa libertà
individuale, quella vera, può essere mortificata, tarpata da
un’esistenza vissuta fuori da ogni regola e disciplina. Dice: e il
Mamiani? Niente, è stato solo un pretesto. Perché in fondo se,
parafrasando Hemingway, ci chiedessimo per chi suona la campanella di
ogni scuola, dovremmo rispondere che, oggi più che mai, suona per
tutti.