Dai concorsi ai giochi: perché i test hanno invaso la nostra vita
Ha senso limitare il diritto allo studio con una prova così impersonale?

Come è difficile misurare il pensiero.

L'intelligenza di Einstein non è la stessa di Aristotele,
o di quella messa in campo da Platone

Stefano Bartezzaghi, la Repubblica del 14/9/2007

 

Ai tempi in cui la nostra scuola conosceva ancora solo compiti e interrogazioni, e ancora non usava neppure la parola "verifica" - quindi prima delle "schede", dei "curricola" e delle "valutazioni" - furono i Peanuts di Charles Schulz a introdurre nel panorama italiano il test a scelta multipla. Avveniva in certe vignette con Piperita Patty e la sua amica secchiona Marcie: alle prese con la fatale alternativa tra A, B e C, Piperita, studentessa non impeccabile, di striscia in striscia si appellava alla sorte, alla scaramanzia, all'assonanza o a una fuggevole simpatia per una risposta. Ogni variante fornita dall'inventiva di Schulz produceva gag divertenti per il lettore. In Italia il test ha dunque avuto un esordio di tipo umoristico, e questo dovrebbe suggerirci qualcosa.

Due altre evenienze semiserie prevedevano a quei tempi un test a risposte multiple, entrambe erano riti di passaggio per neo-maggiorenni, in un caso soltanto per i maschi. La prima era ed è l'esame "teorico" per la patente automobilistica - molto teorico, visto l'uso che gli automobilisti faranno delle nozioni lì imparate -, con quei trabocchetti come la possibile risposta "Un elemento dello sterzo" data alla domanda "Cos'è il volano?" (e c'è sempre chi ci casca). La seconda era il test attitudinale nell'ultimo dei tre giorni della visita al distretto militare. In questo caso una tenace e mai verificata leggenda assicurava grossi vantaggi al candidato che sbagliasse apposta il maggior numero di domande, facendosi passare per scemo ed evitando così destinazioni e mansioni troppo impegnative durante il futuro anno di naja.

Il test divenne poi una risorsa per l'intrattenimento giornalistico: scopri se sei una persona gelosa, qual è il tuo vizio capitale, se hai attitudine alla leadership o all'avventura o alla trasgressione rispondendo a venti, trenta, quaranta domande molto eterogenee, con calcoli per il punteggio e ritratti più o meno spiritosi come esito finale.

Quanto incoraggianti siano state ritenute queste premesse non si sa, come non si sa quale tipo di ragionamento sia stato opposto al momento in cui si decise che il gioco del test a risposta multipla potesse essere adottato anche nel sistema scolastico, come seria forma di valutazione finale o preventiva. I vantaggi sono tutti nella comodità standardizzata della raccolta dei punteggi, quindi nella loro computabilità. Gli svantaggi stanno tutti nell'assenza di soggettività, sia nella domanda sia nella risposta: il che può essere scambiato per un vantaggio solo da chi sogni un'umanità futura perfettamente meccanizzata.

È abbastanza ovvio che l'intelligenza di Einstein non è la stessa di Aristostele, che l'intelligenza del medico che fa una diagnosi non è la stessa che metteva in campo Michel Platini quando giocava; che l'intelligenza di quelle "menti raffinatissime" a cui Giovanni Falcone attribuiva il fallito attentato che subì all'Addaura non è quella dell'avvocato che scova il cavillo che manderà assolto un colpevole. Tutte forme di intelligenza diverse fra loro, e spesso intermittenti, per cui lo storico della letteratura che sa tutto di Dolce Stil Novo non ha la minima idea di come trattare con una signora a lui contemporanea, e la geniale astronoma non sa leggere la mappa della metropolitana. Quindi quale sia l'intelligenza o l'attitudine individuale che si voglia misurare questa non sarà che un lato, un singolo versante, una dimensione ("Il bambino a una dimensione" veniva chiamato proprio Charlie Brown).

Ammettiamo che abbia senso (giusto certo non lo è) limitare il diritto allo studio con una prova così impersonale da essere stupida, e spesso così mal congegnata da diventare aleatoria. Anche in quel caso il problema da risolvere sarà fare in modo che effettivamente lo strumento del test metta tutti i candidati in posizione paritaria, tutti allo stesso livello, tutti a risolvere gli stessi quesiti. Non è scontato, come ha dimostrato l'esperienza barese, dove l'idea del test ha facilitato, anziché ostacolarla, la riproposizione dei tradizionali privilegi di censo - origine familiare e reddito - fra i candidati.

Fra tutte le forme diverse di intelligenza, all'Italia si attribuisce una propensione particolare per un'intelligenza di tipo elusivo, la cui creatività consiste non nel rispettare i vincoli ma nell'aggirarli senza parere: è l'"intelligenza" del sorpasso sulla corsia di emergenza, dell'abuso in previsione del condono e, appunto, del costoso apparato informativo per superare una prova d'esame. Se si arriva a stanziare trenta o cinquantamila euro solo per iscrivere un figlio all'università, per vederlo laureato a cosa si sarà poi disposti? Questa sì che sarebbe una bella domanda da test, nella logica tutta italiana del "se tanto mi dà tanto".

Il pensiero, in fondo, ha una sua logica consequenziale: quando si stabilisce un parametro unificato per l'intelligenza e per l'attitudine individuale e le si quantifica in un numero allora - e proprio da quel momento preciso - l'intelligenza e l'attitudine avranno anche un prezzo. Il parametro numerico si chiama anche "valore", e non per nulla.

Se poi a Salerno un docente di Comunicazione fa a un aspirante studente di Comunicazione una domanda sui presidenti della Repubblica italiana e fra le tre possibili risposte fornite nessuna è corretta, la fiducia nello strumento del test scivola in un orizzonte di credenze superstiziose, se non religiose.

Come tante Piperita Patty gli aspiranti universitari si trovano seduti su banchi incolonnati e possono solo sperare che il modulo che devono riempire funzioni più come un compito in classe che come una schedina del totocalcio. Intervistati dai telegiornali alcuni si sono detti convintissimi che convenga annerire per ogni domanda sempre lo stesso quadratino - essendo le percentuali di errore inferiori a quelle di chi risponde al test pensandoci.

Non è quindi del tutto inconsistente la fantasia che i test possano misurare l'intelligenza: quella che misurano certamente è l'intelligenza di chi li prepara.