Riti collettivi la memoria Noi, i ragazzi in gita scolastica.
Un milione e trecentomila studenti delle scuole
superiori si imbarcano ogni anno in un'avventura eccitante e impietosa
che li mette alla prova in un ambiente diverso e li spinge a capire
quanto costi crescere e diventare se stessi. Ecco, nei dati e nelle
foto del Touring Club Italiano, una piccola storia dei "viaggi di
istruzione" Marco Lodoli la Repubblica del 14/10/2007
Il momento più penoso dei consigli di classe è quando bisogna stabilire quale insegnante accompagnerà i ragazzi in gita. Prima quasi tutti si sono dichiarati favorevoli a questa tre giorni a Venezia o a Firenze, perché è un momento di crescita culturale - dice la professoressa di storia dell'arte; perché renderà la classe più compatta e amica - dice il professore di matematica; perché sono situazioni come queste, più libere e creative, che fanno fare uno scatto in avanti agli studenti - afferma la preside: serve un po' di bastone, ma soprattutto serve tanta carota. Solo un vecchio professore di lettere fa notare che forse la classe non meriterebbe un premio, questa distrazione, visto che i voti sono bassi e il comportamento spesso indegno, che ci sono stati casi di grave insubordinazione e persino una rissa in un cambio d'ora. Ma poi anche lui si arrende e accetta l'inevitabile gita fuori porta. Resta solo da decidere chi guiderà la spedizione, serve un volontario, un eroe. E qui casca l'asino. Qui tutti i professori si dichiarano, ma a malincuore, sia chiaro, totalmente indisponibili. C'è chi ha tre figli a cui badare, chi ha un padre malato - sono dieci anni che questo vecchio padre è malato, non muore mai - chi sta traslocando, chi deve concludere un breve saggio sulle tombe etrusche di Cerveteri - dieci anni che va avanti questo benedetto saggio e non se ne vede la fine. Insomma, tira e molla, minaccia e prometti, la gita rischia di svanire nel nulla per la mancanza di un accompagnatore. Alla fine è il vecchio professore di lettere che, supplicato, omaggiato, incalzato, accetta l'incarico. Lui sa bene cosa accadrà, indovina il futuro perché conosce il passato, ma stoicamente si affida al destino. Arriva il giorno della partenza, l'appuntamento è davanti alla scuola alle sei e trenta di mattina. Piove a dirotto, sembra che tutto il cielo venga giù, e puntuali alle sei e trenta ci sono solo il vecchio professore di lettere e l'autista del pullman con la barba non fatta, la cicca all'angolo della bocca e il suo bestione rosso parcheggiato storto sul piazzale. Il prof si presenta e subito avverte nell'alito dell'autista una inquietante puzza di vino, vino da cartone, da un euro e venti al litro. L'autista è torvo, scostante e forse traballa un poco, mugugna mi raccomando, nel mio pullman ci si comporta bene, non si grida, non si fuma, non si fa casino. I ragazzi arrivano con molta calma, alla spicciolata, in un lasso di tempo di un paio d'ore. Sono eccitatissimi, molle caricate al massimo, ridono senza motivo, si danno grandi pacche sulla schiena, scaraventano valigie e zaini nell'antro del bagagliaio. Appello: ci sono tutti, anzi no. Manca Marchetti Felice. Al telefonino non risponde, a casa nemmeno, e il tempo passa e la pioggia scroscia e i ragazzi, sistemati sui sedili del pullman, amici amici ma insistono per partire, e chi se ne frega di Marchetti. Il bell'addormentato si sveglia con comodo e appare alle nove e un quarto tra gli insulti, le maledizioni e le risate. È stato il primo problema, ma ne seguiranno altri ben più gravi. Alla prima sosta all'autogrill, Bianconi Flavio, un bisteccone da cento chili completamente rasato, prova a rubare tre cd di Gigi d'Alessio e un coniglio di peluche alto un metro e cinquanta, ma viene bloccato proprio all'uscita, e il professore deve discutere parecchio per evitare che venga chiamata la polizia, scusarsi, umiliarsi, andare via con la coda tra le gambe e Bianconi sottobraccio che ridacchia. Il viaggio prosegue tra assopimenti generali e trance collettive generate dalla musica tecno a palla. In molti provano a ballare nel corridoio del pullman, l'autista bestemmia e sbanda, si trova un compromesso su Tiziano Ferro e i Negramaro. L'albergo a venti minuti da piazza San Marco in realtà è appena fuori Portogruaro: è un edificio desolato, invaso in questi giorni da scolaresche provenienti da diversi punti dell'Italia. Tra napoletani, milanesi e romani scattano subito le prime tensioni, coretti da curva e sguardi provocatori. Il vecchio professore cerca di ristabilire la calma, assegna le stanze, invita tutti i suoi alunni a comportarsi degnamente: ma intanto due ragazzi sono già stati attaccati da un febbrone da cavallo, vomitano e mormorano parole senza senso. Un altro ha perso soldi e documenti, un altro non trova più la sua valigia e singhiozza in un angolo della hall, vuole tornare subito a casa, vuole la mamma. La prima notte non passa mai. Nessuno ha la benché minima voglia di mettersi a dormire, è un viavai infinito e tumultuoso per i corridoi, sono porte che sbattono, urla, gavettoni, alcuni tentativi di imbucarsi nelle stanze occupate dalle ragazze di un liceo di Barletta e altri di sottrarre le bottiglie di vodka al bar dell'albergo. Il professore argina come può quel furore dionisiaco, insegue, sgrida, prega. Alle cinque finalmente tutto tace. Alle otto della mattina, orario stabilito per iniziare a muoversi verso Venezia, i ragazzi sono vegetali che tendono al minerale, si muovono appena, sbadigliano di continuo, ma dopo una mezz'ora cominciano a riprendere vita e colore. Per loro questi sono i giorni più belli dell'anno, forse i più belli mai vissuti: di Tiziano e Giorgione, dei Frari e della Giudecca non gli importa quasi nulla, ma stare tutti insieme lontani da casa, dagli sguardi dei genitori, dai divieti e dalle solite opprimenti abitudini è meraviglioso. Hanno discusso per mesi sulla meta, hanno persino litigato, ma in fondo se il viaggio fosse solo il giro a oltranza del Raccordo Anulare e tre notti in un motel sulla Pontina sarebbe uguale. Ciò che conta è mettersi alla prova in un ambiente diverso, divertirsi tanto ma anche emozionarsi nelle notti che partono goliardiche e continuano in mille discorsi seri, decisivi come sono i discorsi a sedici anni. Ciò che conta è capire se si regge la pressione del gruppo, se si riesce a dimostrare di valere qualcosa di più di quanto si vede in classe. Capire quanto costa diventare se stessi. I tre giorni a Venezia passano in un lampo, ma restano dentro a ogni ragazzo come una stagione d'amore e morte. Ogni minuto accade qualcosa di importante, che segna e trasforma. Il professore di lettere lo sa, lo ha già visto tante volte. Vede un amore che nasce su un vaporetto, lui che s'avvicina a lei, lei che sorride, e tutto è come sempre e tutto è nuovo, come sempre. Vede chi intuisce il proprio fallimento, fatto di paura e gregariato. Vede chi si perde per le calli, perché vuole perdersi, andare avanti da solo. Vede chi osserva un quadro con occhi diversi, e per la prima volta, e con un certo sgomento, scopre la bellezza. E qualcuno, sul far della sera, gli rivolge domande che non stanno nel programma scolastico: lei com'era alla mia età, professore, che si aspettava dalla vita, che cercava? Come mai, professore, io mi sento tanto solo?
È una tre giorni di
verità e strappi profondi. Anche il vecchio professore di lettere si
sente fragile: è riuscito a contenere ribellioni e ubriachezze
moleste, ma tutta quella giovinezza lo turba. Anche lui si fa domande
che non stanno né in cielo né in terra, ma che lo agitano. Quand'è che
ho smesso di credere a me stesso, a quello che faccio, agli anni che
passano di corsa. Quand'è che sono invecchiato? Perché mi allarma la
professoressa di quella classe di Barletta? Venezia sta lì, splendida
e indifferente come un depliant, ragazzi e professori si fanno le foto
in piazza San Marco, tra i piccioni. Un giorno le riguarderanno, e
diranno com'ero giovane e stupido, com'ero stanco, come tutto mi
aspettava al varco, come sono stati decisivi quei giorni, quella gita
fuori dal mondo. |